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Caporalato

Scritto da: Valentina Camurri

 

Caratteristiche generali

Il caporalato si è sviluppato in Italia alla fine dell’Ottocento ed è stato definito dalla dottrina come una forma «distorsiva del normale processo di incontro tra domanda e offerta di lavoro» (Giuliani, 2015). Nella pratica, la capillare diffusione di tale fenomeno si è da sempre caratterizzata per la sussistenza di un rapporto trilaterale tra il lavoratore (soggetto passivo), il datore di lavoro (c.d. interponente ovvero utilizzatore finale) e il caporale (interposto). Ed è proprio a quest’ultimo soggetto che il caporalato deve il suo nome: il caporale, infatti, grazie ad una sineddoche, è diventata la parte caratterizzante l’intero rapporto.

Per comprendere le dinamiche che hanno determinato o quantomeno contribuito alla nascita di tale fenomeno, prima, e alla sua dirompente evoluzione, poi, appare opportuno, preliminarmente, analizzare tutte le parti del rapporto triadico – e non già limitarsi alla figura del caporale – in quanto anche il soggetto passivo e il datore di lavoro risultano necessari ai fini della sua configurazione.

L’aspetto qualificante la posizione del soggetto passivo può essere ravvisato nella sua condizione di «particolare vulnerabilità» (Schiuma, 2015): difatti – sebbene lo squilibrio socio-economico fra i contraenti costituisca notoriamente il tratto distintivo del rapporto di lavoro – in questi contesti i lavoratori si trovano in una peculiare situazione di debolezza economica, sociale e culturale che persiste ininterrottamente dalla fase genetica del rapporto fino a quella conclusiva. Si tratta, a ben vedere, di una vera e propria «subordinazione esistenziale» che spesso si concretizza anche con l’uso della violenza e della minaccia da parte del caporale.

Il datore di lavoro interponente, invece, è colui che utilizza materialmente la prestazione dei lavoratori, sottoponendo gli stessi a condizioni di lavoro di tipo para-schiavistico, sfruttandoli e sottopagandoli, con totale dispregio delle norme poste a tutela dei lavoratori.

Infine, al vertice del rapporto trilaterale si pone il caporale. La sua figura è del tutto peculiare: ed invero, pur svolgendo la funzione di intermediario, questi si trova in una posizione estremamente più vicina ai lavoratori, che lui stesso sfrutta, rispetto a quella del datore di lavoro. Del resto, già l’utilizzo della denominazione di “caporale”, mutuata dalla terminologia militare, è indicativo della significativa vicinanza tra l’intermediario e il lavoratore. Nel fenomeno che qui interessa, viene comunemente definito come tale quel soggetto – spesso membro di un’organizzazione criminale – che recluta manodopera irregolare, pretendendo quale compenso dell’opera di intermediazione, una percentuale che solitamente raggiunge il 50-60% della retribuzione giornaliera corrisposta al lavoratore abusivo, già pagato “in nero” e in misura largamente inferiore rispetto a quanto previsto dagli accordi sindacali.

 

Il caporalato in agricoltura

Nonostante si tratti di un fenomeno dinamico e proteiforme, caratterizzato da una spiccata capacità evolutiva e di adattamento ai diversi contesti, il luogo di elezione per l’osservazione della genesi del caporalato c.d. tradizionale è il settore agricolo (Lombardo, 2013). Il fatto che tale ambito sia stato un vero e proprio “terreno fertile” per la nascita e per il suo sviluppo non è casuale: sono, infatti, le caratteristiche ontologiche del lavoro nel settore agricolo ad aver svolto la funzione di catalizzatore. In particolare, le diverse dinamiche occupazionali, l’andamento altalenante e stagionale del ciclo produttivo, la scarsa specializzazione della prestazione lavorativa richiesta, hanno senza dubbio favorito la proliferazione della «maledizione del caporalato». In tale settore, l’esigenza principale del datore di lavoro è da sempre stata quella di trovare, nel più breve tempo possibile, «braccia» in grado di lavorare a basso costo, per un numero elevato di ore, per un periodo limitato di tempo e in condizioni particolarmente gravose (Chiaromonte, 2018). In risposta ad una richiesta del genere, coloro che avevano maggiormente necessità di guadagno hanno iniziato a radunare sempre più persone, tutte caratterizzate dalla stessa impellente esigenza di avere un’alternativa alla disoccupazione. Proprio all’interno di queste categorie omogenee di soggetti, tutti contraddistinti dal medesimo stato di bisogno, si sono differenziati i caporali. La loro funzione è da sempre stata quella di fungere da intermediari tra l’offerta dei datori di lavoro e la domanda di altri soggetti versanti in un grave stato di necessità. Tale forma di intermediazione (distorta) è stata poi senza dubbio favorita dalla natura fungibile della prestazione – in quanto non caratterizzata dall’intuitus personae – che contraddistingue il settore agricolo. Non è mai stato, infatti, importante per i caporali reclutare soggetti in grado di svolgere una precisa e determinata attività poiché la prestazione tipica del settore agricolo non richiede alcun tipo di specializzazione o di capacità tecnico-professionale; ciò che è sempre stato necessario è che gli “intermediari di fatto” trovassero un ingente numero di soggetti disposti ad accettare condizioni lavorative degradanti e per un basso compenso. Per tale ragione, fin dal primo momento, il fenomeno del caporalato ha riguardato, sotto il profilo dei soggetti passivi, le fasce più deboli della popolazione: prima cittadini italiani spesso provenienti dal sud Italia, poi stranieri immigrati. Quest’ultima categoria è oggi diventata quella maggiormente colpita dal fenomeno del caporalato – e non solo nel settore agricolo – a causa della progressiva e ormai strutturale carenza di manodopera italiana, dovuta al processo di trasformazione sociale innescata dall’industrializzazione e dalla terziarizzazione dell’economia in seguito alla rivoluzione industriale.

 

La figura del caporale

Il comune denominatore a tutte queste molteplici e diverse situazioni deve, in ogni caso, essere rinvenuto nella costante sottomissione esistenziale cui sono sottoposti i lavoratori reclutati dai caporali. E proprio tale subordinazione psico-fisica comporta che gli intermediari mantengano il “dominio” sui lavoratori, oltre che con violenza fisica, con la minaccia di denunciare la situazione di irregolarità di questi ultimi, i quali acconsentono così ad essere mera merce di scambio da cui, tanto il datore di lavoro, quanto i caporali possono trarre un’utilitas. Attraverso il caporalato si è, perciò, venuto a creare un vero e proprio “procedimento di reificazione” della persona, in quanto l’assenza di impieghi alternativi ha costretto – e costringe tuttora – i lavoratori ad accettare la propria riduzione ad una res in cambio di una prospettiva di sopravvivenza.

Con il passare del tempo il fenomeno così descritto si è sempre più inserito nel contesto della criminalità organizzata (anche internazionale). Invero, i caporali, da singoli lavoratori dotati di una personalità maggiormente sopraffattiva rispetto agli altri, sono stati sostituiti o dai caporali c.d. collettivi (per lo più cooperative) o da soggetti appartenenti a veri e propri sodalizi criminali. Si è così venuta a creare una crescente contrapposizione tra la condizione di totale isolamento nelle campagne in cui i lavoratori si trovano a lavorare – ma spesso anche a vivere per tutta la durata del ciclo produttivo – e l’organizzazione criminale diffusa anche a livello internazionale che nella maggior parte dei casi è perfettamente pianificata e gerarchicamente ordinata (De Santis, 2018).

 

Alcuni motivi per preoccuparsene

Il fenomeno del caporalato assume rilievo sotto tre differenti prospettive: quella sociologica, quella microeconomica e quella giuridica.

Con riferimento al profilo sociologico, l’analisi dei dati che emergono dagli ultimi rapporti “Agromafie e Caporalato” dimostra una capillare e crescente diffusione del fenomeno del caporalato tradizionale in tutto il territorio nazionale. Oggi, inoltre, il caporalato ha assunto un nuovo volto, in quanto si fanno rientrare all’interno del fenomeno anche le forme del caporalato c.d. grigio e quelle del caporalato digitale (perpetrato attraverso i canali tecnologici, primi tra tutte le piattaforme); da una tale evoluzione ne conseguirà, in un’ottica prospettica, una ulteriore e inarrestabile espansione in grado di dare vita ad una vera e propria «economia sommersa», regolata esclusivamente dai rapporti di forza e dal ricatto esistenziale (Di Lecce, 1980). 

Dal punto di vista microeconomico, inoltre, l’interesse del datore di lavoro (rectius: utilizzatore) è riscontrabile nell’ingente risparmio sul costo del lavoro che questo riesce a conseguire attraverso il ricorso al mercato del lavoro nero così da poter inserire nella grande distribuzione prodotti a prezzi più competitivi. La richiesta nel settore (non solo) agroalimentare è naturalmente orientata verso prodotti più convenienti e ciò causa «una concorrenza al ribasso sui prezzi del prodotto finale, la quale, in ultima analisi, non può che influire negativamente sul costo del lavoro, sotto forma di dumping sociale» (Schiuma, 2015). Invero, il datore di lavoro, ricorrendo al fenomeno del caporalato, consegue rilevanti risparmi di spesa, non solo in termini di retribuzione, ma anche grazie a quelli ottenuti dalle condizioni di lavoro che non rispettano, in alcun modo, né la disciplina lavoristica, né quella previdenziale e contributiva. Ciò crea, necessariamente, una “concorrenza sleale” tra gli imprenditori che scelgono di aderire a tale forma illegale di occupazione, e quelli che, al contrario, svolgono la propria attività entro i binari della legalità.

Infine, dal punto di vista giuridico, il legislatore ha inteso stigmatizzare le condotte di caporalato inserendo nel codice penale, ai sensi dell’art. 603 bis c.p., una fattispecie ad hoc, rubricata “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Tale reato, introdotto dal DL 13 agosto 2011 n. 138 (c.d. Manovra-bis) è stato poi successivamente modificato dalla legge 29 ottobre 2016 n. 199. Attualmente il delitto punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni, e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, sia i “caporali” – che reclutano manodopera – sia coloro che utilizzano, assumono o impiegano lavoratori in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno. Per il suo perfezionamento è sufficiente che i soggetti agenti sottopongano i lavoratori reclutati e assunti a condizioni di sfruttamento lavorativo, non essendo invece richiesto l’uso della violenza, della minaccia o dell’intimidazione: la presenza di queste ultime modalità esecutive è invece in grado di integrare un’aggravante ad effetto speciale (cui ne consegue un aumento della pena da cinque a otto anni e della multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato). Il legislatore ha, inoltre, determinato che la situazione di “sfruttamento” è integrata qualora il rapporto di lavoro sia caratterizzato da: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni   sindacali più rappresentative a livello  nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza  di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Costituiscono, infine, un’aggravante specifica che comporta l'aumento della pena da un terzo alla metà il fatto che: 1) il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

 

Riferimenti bibliografici

  • Chiaromonte W. (2019), ““Cercavamo braccia, sono arrivati uomini”. Il lavoro dei migranti in agricoltura fra sfruttamento e istanze di tutela”, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 321-356.
  • De Santis G. (2019), “Caporalato e sfruttamento di lavoro. Storia e analisi della fattispecie delittuosa vigente”, in G. De Santis, S. M. Corso, F. Delvecchio (a cura di), Studi sul caporalato, 42.
  • Di Lecce M. (1980), “Note sui profili penali della c.d. “economia sommersa”, Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, IV, 91 e ss.
  • Giuliani A. (2015), “I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, Jus Quid, 18 (accessibile a questo link: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Giuliani-I-reati-in-materia-di-caporalato-intermediazione-illecita-e-sfruttamento-del-lavoro.pdf).
  • Leogrande L. (2008), Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano, Mondadori Editore.
  • Lombardo M. (2013), “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, Digesto delle Discipline Penalistiche, Agg. VII, Torino, 358.
  • Schiuma D. (2015), “Il caporalato in agricoltura tra modelli nazionali e nuovo approccio europeo per la protezione dei lavoratori immigrati”, Rivista di diritto agrario, I, pt. 1, 87-115.

 

Suggerimenti di lettura

  • Bin L. (2020), “Problemi “interni” e problemi “esterni” del reato di intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro (art. 603 bis c.p.)”, La legislazione penale.
  • D’Onghia M. (2019), “Immigrazione irregolare e mercato del lavoro. Spunti per una discussione”, Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, II.
  • D’ottavio B. (2019), “Profili penali del reclutamento e dello sfruttamento di manodopera (il cd. caporalato)”, Lavori Diritti Europa, II
  • Osservatorio “Placido Rizzotto” (anni vari), Rapporto su Agromafie e Caporalato, Roma, Federazione Lavoratori Agroindustria (FLAI-CGIL). Link.
  • Rotolo G. (2018), “Dignità del lavoratore e controllo del "caporalato"”, Diritto Penale Contemporaneo, fasc. VI.
Valentina Camurri
Dottoranda di ricerca in Lavoro, Sviluppo e Innovazione presso la Fondazione Marco Biagi nonchè Cultrice della materia di Diritto processuale penale e in Diritto processuale penale delle società presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia. È, altresì, esperta incaricata presso la Commissione di Certificazione della Fondazione Marco Biagi, all’interno della quale si occupa dei contratti di appalto. I suoi interessi di ricerca riguardano, principalmente, il reato di caporalato e i relativi strumenti di contrasto, nonché i riflessi applicativi del Dlgs. 231/2001.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena