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Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Reddito di base

Scritto da: Elena Granaglia

 

Definizione

Il reddito di base è un trasferimento erogato agli individui, a intervalli regolari, durante l’intero corso della vita, a prescindere dalle risorse detenute, dallo status lavorativo e da altre condizioni comportamentali. Il carattere incondizionato e individuale distingue il reddito di base dal reddito minimo, un trasferimento circoscritto ai poveri, oggi ovunque associato alla richiesta della disponibilità a lavorare (nonché, in taluni casi, ad altri comportamenti quali inviare i figli a scuola e/o ad accedere a determinati servizi sociali) e a base familiare, per evitare di aiutare individui privi di risorse proprie, ma appartenenti a famiglie non povere.

 

Perché serve un reddito di base

Diverse sono le giustificazioni. Innanzitutto, il reddito di base rappresenterebbe la quota di risorse comuni di cui ciascun individuo è titolare. L’idea, al riguardo, è che non tutto quanto privatamente si acquisisce sul mercato possa dirsi nostro, derivando da un insieme svariato di dotazioni rispetto alle quali i singoli non possono vantare alcun titolo di merito, poiché indipendenti dalla loro azione. Paradigmatico è il termine “regali” usato da van Parijs (1995).

Se i regali fossero distribuiti in misura uguale, nessun intervento sarebbe necessario: saremmo tutti nelle stesse condizioni. Così, però, non è. Alcuni godono di regali da cui altri sono esclusi. Bisognerebbe allora mettere in comune i regali e ripartirli in misura uguale fra tutti. Poiché molte dotazioni sono indivisibili, la via diventa quella di mettere in comune i redditi associati a tali dotazioni, ripartendoli in misura uguale fra tutti. Il reddito di base è esattamente l’esito di tale ripartizione. Potremmo anche riferirci a un’uguale ripartizione delle rendite. Essendo la differenza fra il prezzo domandato per offrire un fattore – e, dunque, coprire lo sforzo per fornirlo – e il prezzo offerto, la rendita rappresenta i redditi indipendenti dall’azione individuale.

La terra e la rendita fondiaria (data l’impossibilità di ripartire la terra in parti uguali o, perlomeno, in parti di qualità uguale) costituiscono tipici esempi di regalo da redistribuire fra tutti, come argomentato, fra gli altri, da Paine (1999) e George (1935), i cui lavori risalgono rispettivamente al 1797 e al 1879. I regali potrebbero, tuttavia, essere ben più estesi, includendo, oltre al patrimonio genetico e alle innumerevoli circostanze casuali che influenzano la capacità di formazione e perseguimento dei diversi piani di vita, le infrastrutture materiali e immateriali che ereditiamo. Nei termini di Van Parijs e Vanderborght (2017, p.173): “noi tutti in modi diversi, ma principalmente attraverso il reddito da lavoro, beneficiamo in misura estremamente ineguale di ciò che riceviamo gratuitamente dalla natura, dal progresso tecnologico, dall’accumulazione del capitale, dall’organizzazione sociale, dalle norme di buona educazione e così via. Il reddito di base assicura che ciascuno riceva una quota equa del patrimonio che nessuno di noi ha contribuito a creare, dell’ingombrante presente incorporato nei nostri redditi in modo assai disomogeneo”. A ciò si aggiungono i (buoni) lavori, oggi resi sempre più scarsi dallo sviluppo tecnologico.

Vi è, inoltre, la giustificazione basata sulla remunerazione di contributi che i singoli producono, ma per i quali non sono retribuiti. Al contrario, altri si appropriano del valore aggiunto prodotto (Fumagalli, 2013). Un esempio è costituito dalla partecipazione alla rete, la quale permette ad altri di beneficiare dei dati personali offerti, e un altro è costituito dal lavoro di cura.

A ciò si aggiunge la giustificazione basata sul valore della libertà. Il reddito di base fornirebbe uno zoccolo di sicurezza economica che rafforza la capacità di dire no a ricatti e abusi di potere, siano essi da parte di familiari o di datori di lavoro, così rafforzando la “libertà da”. Al contempo, favorirebbe pure la “libertà di” sperimentare forme di vita diverse. Ad esempio, permetterebbe di conciliare lavori diversi – contributo particolarmente apprezzabile in una situazione, come l’attuale, di diminuzione del lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno – nonché combinazioni diverse di lavori e di altre attività perseguite per passione e/o per finalità di cura (sia essa nei confronti di familiari e/o della più complessiva comunità), senza discriminare fra piani di vita (Van Parijs, 2017). In breve, il reddito di base amplia la gamma di opportunità d’impiego del tempo, attenuando la costrizione alla scelta di lavori che non vorremmo fare.

Infine, il reddito di base potrebbe rappresentare la risposta di secondo ottimo ad alcuni inevitabili limiti della selettività (Atkinson, 2015). Da un lato, la selettività impone la prova dei mezzi al fine di distinguere gli aventi diritto dai non aventi diritto: amministrare tale prova richiede, tuttavia, tempo e, nelle more, i poveri restano senza copertura. Il problema appare particolarmente preoccupante oggi, quando la precarietà del mercato del lavoro comporta ingressi e uscite frequenti rispettivamente nei e dai programmi di reddito minimo. Da un altro lato, nessuna scala di equivalenza sarà mai in grado di neutralizzare l’eterogeneità nelle caratteristiche e nelle condizioni individuali, così da rendere equivalente il potere d’acquisto dei diversi soggetti. Al contrario, un soggetto con risorse appena sopra la soglia (che non riceve il trasferimento) potrebbe stare peggio di chi si trova sotto la soglia (e riceve il trasferimento), solo perché la scala di equivalenza non ha tenuto in debito conto qualche dimensione di bisogno. Iniquità orizzontali appaiono, dunque, ineliminabili. Da ultimo, più i sistemi selettivi adottano requisiti stringenti per contrastare l’ingresso dei falsi positivi, soggetti che potrebbero lavorare e non essere poveri, più aumenta il rischio di bollare i poveri come cittadini di serie B, con qualità morali inferiori a quelle degli altri. Il che, simmetricamente, aumenta il rischio dei falsi negativi, soggetti che avrebbero diritto al trasferimento, ma non vi accedono per lo stigma associato ai requisiti posti dal reddito minimo. Il carattere incondizionato del reddito di base eviterebbe tutti questi problemi.

 

Le obiezioni

Diverse sono, però, anche le obiezioni mosse al reddito di base. Alcune sono facilmente affrontabili. Lo sono, ad esempio, le obiezioni in termini di parassitismo a danno di chi lavora e di sottovalutazione del lavoro, il reddito di base essendo disponibile a tutti, inclusi i surfisti di Malibu (Van Parijs, 1991). Se il reddito di base rappresenta la ripartizione di risorse comuni e/o l’appropriazione di contributi forniti all’economia per i quali non riceviamo alcun compenso, sarebbero parassiti coloro che si appropriano di risorse che non sono loro, non coloro che ricevono un reddito di base. Il reddito di base, al contrario, rimedierebbe esattamente a tale parassitismo. Il reddito di base potrebbe poi addirittura stimolare l’offerta di lavoro. Una via, a quest’ultimo riguardo, consiste nel rafforzamento della disponibilità a rischiare, data una base incondizionata di risorse, e a cooperare sentendosi ben trattati. Un’altra concerne l’assenza di effetti di sostituzione. Diversamente da quanto avviene negli schemi di reddito minimo (che contemplano la perdita del trasferimento al raggiungimento della soglia di povertà), il reddito di base evita le trappole della povertà e della disoccupazione, così assicurando ai meno abbienti la libertà di lavorare.

Resterebbe in funzione l’effetto reddito: avere un reddito fa sentire più ricchi e ciò indurrebbe a lavorare di meno. Oltre al fatto che il peso dell’effetto reddito dipende dall’importo del trasferimento – eventuali disincentivi potrebbero essere contrastati da una diminuzione - e che il lavoro è solo una parte delle attività umane, quanti di noi lavorano sebbene non poveri? Molti, poiché il lavoro è veicolo di senso per le nostre vite. L’effetto reddito diventa più probabile nei confronti dei cattivi lavori (o più complessivamente dei lavori che si reputano meno dotati di significato), che potrebbero, invece, essere sussidiati da schemi di reddito minimo condizionati alla disponibilità a lavorare. Sotto un profilo equitativo, potremmo, però, lamentare la penalizzazione dei cattivi lavori? In ogni caso, il reddito di base è perfettamente compatibile con politiche economiche che ampliano le opportunità sia di occupazione sia di conciliazione fra attività diverse.

Facilmente affrontabili appaiono anche le obiezioni secondo cui il reddito di base sottovaluterebbe i servizi forniti dallo Stato sociale e la questione del disegno dei mercati. Rispetto ai servizi, la sottovalutazione si verifica solo nelle prospettive più libertarie che difendono il reddito di base come sostitutivo dei servizi forniti dallo Stato sociale. Altre prospettive, come quella di Van Parijs (1995), riconoscono la desiderabilità dei servizi. Per Van Parijs (1995), una parte stessa del reddito di base potrebbe essere erogata sotto forma di servizi. La sottovalutazione non è, pertanto, inevitabile. Come per le politiche per l’occupazione, così politiche dei servizi potrebbero associarsi al reddito di base. In opposizione a chi valuta i trasferimenti di reddito una misura meramente assistenzialistica, i difensori del reddito di base difendono, semplicemente, la desiderabilità di accedere anche a un reddito. Di nuovo, considerando le nostre vite più avvantaggiate, possiamo sostenere che avere un reddito non conti?

Rispetto al disegno dei mercati, il reddito di base deriva dall’esigenza di una diversa distribuzione dei redditi di mercato nelle prospettive sia delle risorse comuni sia della remunerazione di contributi effettuati dai singoli, ma del cui valore altri si appropriano. Non solo: il reddito di base favorirebbe anche un processo bottom up di cambiamento attivato dalla possibilità di dire no ai cattivi lavori, rappresentando di fatto il salario di riserva. In questo senso, si occupa esattamente del disegno dei mercati. Utilizzando un termine che si sta diffondendo, il reddito di base si pone come intervento “pre-distributivo”, di modifica ex ante dei diritti di proprietà.

Certo, l’attenzione al disegno dei mercati è limitata a una diversa ripartizione dei redditi prodotti e il processo di bottom up concerne soprattutto la parte bassa della distribuzione. Restano trascurate le iniquità dovute alla crescente concentrazione di mercato (e con essa al crescente potere di mercato), ai diritti di proprietà intellettuale che conferiscono privilegi ben oltre alle ricompense necessarie a stimolare l’innovazione, alla de-regolazione finanziaria e a una governance dell’impresa sempre più finalizzata alla mera massimizzazione del valore delle azioni. Anche a questo riguardo, però, nulla osta ad affiancare al reddito di base altre politiche. Una diversa regolazione dei mercati e delle imprese inciderebbe, indiscutibilmente, sull’entità e sulla tipologia dei regali. Non annullerebbe, tuttavia, questi ultimi.

L’obiezione più forte concerne l’entità delle risorse necessarie a finanziare la misura. Il reddito di base permette, sì, di risparmiare i costi amministrativi della selettività e potrebbe sostituire molti trasferimenti monetari e agevolazioni fiscali oggi esistenti. Attenzione va, dunque, posta a evitare doppi conteggi. La sostituzione non appare, tuttavia, in grado di coprire le risorse necessarie al finanziamento. Si considerino, ad esempio, le assicurazioni contro la disoccupazione. Parte dei sussidi contro la disoccupazione potrebbe essere sostituita dal reddito di base: ad esempio, in presenza di un sussidio pari a 700 euro e un reddito di base pari a 500, il sussidio potrebbe scendere a 200 euro. Questi 200 euro resterebbero, però, da finanziare. Si considerino, altresì, le agevolazioni per i redditi dipendenti. Tali agevolazioni riflettono esigenze di discriminazione qualitativa dei redditi e di riconoscimento, seppure in misura parziale, delle spese per la produzione del reddito che non paiono, in alcuna misura, soddisfacibili dal reddito di base. I risparmi nei costi amministrativi appaiono poi limitati e incapaci di contrastare l’onere derivante dall’estensione della platea dei soggetti che diverrebbero titolari del trasferimento.

Nonostante la questione del finanziamento, il reddito di base ha il merito di portare l’attenzione sulla presenza di risorse comuni, sull’importanza del reddito come strumento di libertà e sul contributo offerto da un trasferimento individuale e incondizionato al contrasto di molti problemi associati ai trasferimenti selettivi. Se così, una strada potrebbe essere quella di un uso circoscritto del reddito di base, quale idea-guida, al momento irrealizzabile, ma da introdurre incrementalmente, in funzione anche di miglioramenti degli assetti vigenti di sostegno al reddito. In questa prospettiva, si potrebbero immettere alcuni elementi del reddito di base all’interno degli schemi di reddito minimo, ad esempio, inserendo alcuni elementi di individualità (a favore dei giovani) ed evitando le forme più stringenti di condizionalità al lavoro, e si potrebbero affiancare agli schemi di reddito minimo forme parziali reddito di base, quali i trasferimenti universali/quasi-universali per i figli (Sirugue, 2016; Granaglia, 2016).

 

Riferimenti bibliografici

  • Atkinson A. (2015), Inequality: What Can Be Done?, Cambridge, Harvard University Press (trad. it. Disuguaglianza. Che cosa si può fare, Milano, Cortina, 2015).
  • Fumagalli A. (2013), Lavoro male comune, Milano, Bruno Mondadori.
  • George H. (1935), Progress and Poverty, accessibile qui.
  • Granaglia E. (2016), “Contaminazioni proficue fra reddito minimo e reddito di cittadinanza”, Menabò di Etica e Economia, 43.
  • Paine T. (1999), Agrarian Justice, accessibile qui.
  • Sirugue C. (2017), Repenser les minima sociaux : vers une couverture socle commune, accessibile qui.
  • Van Parijs P. (1991), “Why Surfers Should Be Fed. The Liberal Case for an Unconditional Basic Income”, Philosophy and Public Affairs, 20(2), 101-131.
  • Van Parijs P. (1995), Real Freedom for All, Oxford, Oxford University Press.
  • Van Parijs P. (2017), Come rivalutare il lavoro? Dando un reddito a tutti, accessibile qui.
  • Van Parijs P. e Y. Vanderborgh (2017), Basic Income. A Radical Proposal for a Free Society and a Sane Economy, Cambridge, Harvard University Press, (trad. it., Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, Il Mulino, 2017).

 

Suggerimenti di lettura

  • Bronzini G. (2017), Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, Torino, Edizioni Gruppo Abele.
  • Granaglia E. e M. Bolzoni (2016), Il reddito di base, Roma, Ediesse.
  • Toso S. (2016), Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?, Bologna, Il Mulino.
  • Thomas A. (2017) Republic of Equals: Predistribution and Property-Owning Democracy, Oxford, Oxford University Press.
Elena Granaglia
Elena Granaglia è professoressa di Scienza delle Finanze al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma3. Si occupa da sempre del rapporto fra giustizia distributiva, efficienza e disegno delle politiche sociali. Gli ultimi lavori includono Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?, Il Mulino, 2014 (insieme a M. Franzini e M. Raitano), e Il reddito di base, Ediesse, 2016 (insieme a M. Bolzoni).

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena