Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Bene comune

Scritto da: Eleonora Costantini

 

Definizione

Il concetto di bene comune è stato diversamente declinato, nel corso del tempo e in diversi ambiti disciplinari; qui interessa proporre una definizione del concetto che sia riconducibile ai temi della disuguaglianza sociale e, più nello specifico, proporre una lettura del sistema di welfare come bene comune (Saraceno, 2014).

Da un punto di vista strettamente economico, una prima modalità definitoria distingue i beni in base ai requisiti di escludibilità nella fruizione e rivalità nel consumo. Sono, dunque, beni pubblici quelli caratterizzati da non rivalità nel consumo e non escludibilità nella fruizione (ad esempio strade o illuminazione pubblica), ossia quei beni il cui consumo da parte di un individuo non ne impedisce il consumo da parte di altri né il consumo da parte di tanti ne riduce la disponibilità. Al contrario, un bene privato è caratterizzato da rivalità ed escludibilità, trattandosi solitamente di beni scambiati nel mercato. I beni comuni (ad esempio pascoli, pesca o foreste), invece, sono da intendersi come risorse materiali o immateriali condivise, che tendono a essere non esclusive ma rivali, ossia che possono essere fruite da comunità più o meno ampie ma con un alto rischio di deterioramento (Zamagni, 2007).

Restando sul piano definitorio, Montesi (2016) propone un’ulteriore distinzione tra bene totale e bene comune: il primo è una sommatoria che prevede sostituibilità, sacrificando il bene di qualcuno; il secondo, invece, è un prodotto, i cui fattori sono il bene dei singoli. Il bene comune, dunque, non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in funzione della sua relazione con gli altri (Montesi, 2016). Con le parole di Zamagni: “la natura di un bene comune è che il vantaggio o beneficio che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che pure altri traggono da esso. Il bene che il singolo ricava viene fruito assieme a quello di altri, non contro (bene privato) né a prescindere (beni pubblici)” (Zamagni e Bruni, 2004).

 

La gestione dei beni comuni

Data la loro natura, lo sfruttamento e le forme di amministrazione dei beni comuni rappresentano nodi di particolare rilievo. Lo sfruttamento, in particolare, è al centro di diverse analisi economiche: Garrett Hardin nel 1968 affronta la tragedia dei beni comuni, chiedendosi quale sia la forma di amministrazione in grado di scongiurarne la scomparsa. Se, infatti, il mercato è il luogo di scambio dei beni privati e la redistribuzione è il principio di riferimento nel caso dei beni pubblici, il principio che guida la gestione dei beni comuni non può che essere la reciprocità (Zamagni e Bruni, 2015), spostando dunque il focus dai diritti di proprietà ai diritti di controllo e, quindi, agli strumenti di governo. Mentre Hardin individuava nello Stato, sotto la forma di Leviatano, la soluzione alla tragedia dei beni comuni, più tardi Ostrom (1990) propone la soluzione comunitaria come l’unica percorribile, che tuttavia implica da parte di tutti coloro che fruiscono del bene, il riconoscimento e l’accettazione di un legame di reciprocità.

La dimensione comunitaria diventa centrale anche nel riconoscimento formale e giuridico dei beni comuni, che non dipendono dalle caratteristiche intrinseche dei beni quanto dalle convenzioni sociali e dalle istituzioni che li regolano: un bene diventa giuridicamente comune solo se una comunità si impegna a gestirlo come tale e solo se gli Stati consentono alla comunità il pieno diritto di gestione (Ostrom, 1990).

Il governo dei beni comuni viene problematizzato da Ostrom in termini di “variabili da includere nel tentativo di spiegare e prevedere in quali circostanze è più probabile che le risorse collettive siano amministrate efficacemente con un’organizzazione interna”, ossia la capacità degli eco-sistemi locali di sviluppare norme e modelli di reciprocità, attraverso cui creare/costruire istituzioni proprie, di amministrazione dei beni (Ostrom, 1990).

Fatte queste premesse, il sistema di welfare può essere considerato a pieno titolo come un bene comune nel momento in cui è costruito per mezzo della fiscalità generale, senza l’esclusione di alcun cittadino, ma la cui natura limitata implica decisioni di amministrazione che possono determinare l’impossibilità del suo consumo da parte di alcuni, quando è stato consumato da altri (Rucco, 2018). Ma c’è di più: la reciprocità implica che il godimento del bene (servizio) da parte di un individuo non può prescindere dal godimento del bene da parte degli altri; la risposta ai bisogni sociali, dunque, non è un bene per il singolo ma anche per l’intera società. In altre parole, considerare il welfare state come bene comune richiede, ancora prima, di riconoscere l’esistenza di legami sociali basati sulla presa di cura dell’altro, dettata da una dipendenza tra esseri umani: il “principio di vulnerabilità” di cui parla Nussbaum (2002), secondo cui “è dalla vulnerabilità che nasce la dipendenza e dalla dipendenza la fiducia e la responsabilità”.

Allargando la riflessione alle forme di amministrazione per via politica dei beni comuni, sempre Nussbaum (2002) riformula il concetto di politica pubblica come “l’insieme delle azioni compiute da una pluralità di attori, che siano in qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo e cioè di un bisogno, di una opportunità o una domanda insoddisfatta, che sia generalmente considerata di interesse generale”.

Principio di vulnerabilità, definizione collettiva del problema e molteplicità degli attori interessati alla sua soluzione sono i cardini della riflessione che propongono Zamagni e Bruni (2004). Dal loro punto di vista il concetto di vulnerabilità esprime in modo chiaro la condizione di “quei soggetti che hanno la possibilità di cadere in una situazione di fragilità in un tempo breve”, ossia ricomprende un principio dinamico di modificazione della condizione individuale che può riguardare chiunque all’interno della società e, proprio per questo, deve essere un’attenzione di tutti. Secondo gli autori, pensare al welfare in termini di mutua vulnerabilità consente di comprendere il vero limite del welfare state, ossia l’impossibilità pratica di mantenere “l’uguaglianza tra i cittadini come fondamento per il funzionamento della democrazia” (Zamagni e Bruni, 2015).

Zamagni e Bruni mettono in discussione il fondamento stesso del welfare state, in cui lo Stato deve provvedere alla redistribuzione delle risorse secondo un qualche criterio di equità, come forma riparatoria alla disuguaglianza prodotta dal mercato capitalistico, al quale si chiede di produrre quanta più ricchezza possibile, dati il vincolo delle risorse e della tecnologia, senza preoccupazioni sul modo in cui questa è prodotta. Il limite di questo modello è dunque quello di accettare, implicitamente, una separazione netta tra la sfera economica e quella sociale, determinando l’idea che “una società democratica potesse progredire tenendo disgiunti il codice dell’efficienza e quello della solidarietà” (Zamagni e Bruni, 2015). Gli autori, di fronte ai dati che mostrano la crisi sistemica del welfare state (aumento della diseguaglianza sociale in Italia a partire dagli anni ’70, nonostante un investimento costante di risorse nelle misure di welfare) propongono un modello alternativo, in cui l’intera società dovrebbe farsi carico delle vulnerabilità di tutti quanti la compongono, mettendo in connessione la sfera dello Stato con quella del mercato e quella della società civile organizzata. Nei modi di interazione sistematica tra le tre sfere risiedono le possibilità di formulazione e amministrazione degli interventi di risposta alle vulnerabilità (Zamagni e Bruni, 2015).

La proposta teorica avanzata da Zamagni e Bruni (2015) trova conferma nella riflessione condotta da Capra e Mattei (2017) in merito alla sfera del diritto. Nella riflessione degli autori, la categoria dei “beni comuni” si pone in antitesi a quella dicotomica “bene pubblico/bene privato”, propria della modernità, che riconosce due spazi separati, riferiti a ciò che è politico e ciò che appartiene alla proprietà privata, senza tenere in considerazione la circolarità esistente nella società tra pubblico e privato. Il bene comune, dunque, non è da intendersi come ulteriore categoria tassonomica, ma come paradigma di interpretazione alternativo, in cui i processi sociali sono comprensibili solo attraverso un approccio relazionale, complesso, teleologico e dialettico (Capra e Mattei, 2017).

Il paradigma fondato sul principio di bene comune, dunque, pone al centro un approccio ecologico e di sistema ma anche di processo, nel momento in cui riconosce il principio di reciprocità (e non la bi-direzionalità); la stessa definizione di bene comune è situazionale: non esiste di per sé, ma “emerge” come tale in un contesto relazionale e dinamico (Capra e Mattei, 2017).

 

Riferimenti bibliografici

  • Capra F. e U. Mattei (2017), Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, Aboca Edizioni.
  • Montesi C. (2016) Il paradigma dell’Economia Civile. Radici storiche e nuovi orizzonti, Terni, Cesvol, Umbria Volontariato Edizioni.
  • Nussbaum M. C. (2002) Giustizia Sociale e Dignità Umana, Bologna, Il Mulino.
  • Ostrom E. (1990), Governing the Commons, Bloomington, Indiana University Press (trad. it. Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio, 2006).
  • Rucco F. (2018), “Il welfare come bene comune: estrazione di valore, prospettive di finanziarizzazione e autodifesa della società”, H-ermes. Journal of Communication, 11, 29-40.
  • Saraceno C. (2014), “Si può pensare al Welfare come bene comune?”, il Mulino, 6, 906-915.
  • Zamagni S. (2007), L’economia del bene comune, Roma, Città Nuova Editrice.
  • Zamagni S. (2012), Per un’economia a misura di persona, Roma, Città Nuova Editrice.
  • Zamagni S. e L. Bruni (2004), Economia Civile, Bologna, Il Mulino.
  • Zamagni S. e L. Bruni (2015), L’economia civile. Un’altra idea di mercato, Bologna, Il Mulino.

 

Suggerimenti di lettura

  • Capra F. e U. Mattei (2017), Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, Aboca Edizioni.
  • Zamagni S. (2007), L’economia del bene comune, Roma, Città Nuova Editrice.
  • Zamagni S. e L. Bruni (2015), L’economia civile. Un’altra idea di mercato, Bologna, Il Mulino.
Eleonora Costantini
Eleonora Costantini è una sociologa economica, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Da sempre coniuga ricerca e lavoro sul campo, in particolare sui temi della migrazione e dei servizi di welfare.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena