Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Servizi pubblici per l'impiego

Scritto da: Emilio Reyneri

 

I compiti *

Ai servizi pubblici per l’impiego, articolati nel territorio in centri per l’impiego, sono attribuiti due compiti:

  1. Registrare sia le dichiarazioni delle imprese (e anche di alcune amministrazioni pubbliche) sulle assunzioni e sulle cessazioni dei rapporti di lavoro (per scadenza dei termini, dimissioni, licenziamento, pensionamento), sia le iscrizioni delle persone che si dichiarano in cerca di lavoro;
  2. Favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, cercando sia di soddisfare le richieste di lavoratori da parte delle imprese, sia di trovare un’occupazione alle persone in cerca di lavoro, anche ricorrendo, direttamente o attraverso organizzazioni private, a misure di politica attiva del lavoro.

 

Il modello europeo

Dopo le riforme che hanno mirato soprattutto a esternalizzarne alcuni compiti ad agenzie del lavoro private, non è facile sintetizzare un modello europeo. Tuttavia, è possibile identificare tratti comuni alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale (Pastore, 2015). 

1. Un’agenzia pubblica nazionale, con più o meno ampia autonomia regionale

Con l’eccezione della Gran Bretagna, il compito di svolgere i servizi per l’impiego è affidato a un’Agenzia autonoma, sia pure di diritto pubblico. Questa Agenzia è nazionale, per consentire sia un’uniformità nella fornitura dei servizi essenziali, sia una circolazione delle esperienze. Tuttavia, in paesi come la Germania e la Spagna l’autonomia delle strutture regionali è molto forte.

2. Coinvolgimento delle parti sociali

Il modello classico è quello della Germania, ove i consigli di amministrazione dell’Agenzia per l’impiego, a livello sia nazionale sia dei lander, sono tripartiti, cioè nominati dal potere politico, dai sindacati e dalle associazioni dei datori di lavoro. La presenza delle parti sociali è prevista anche in Francia.

3. Affidamento di alcuni servizi a società private, ma controllo sullo stato di disoccupazione da parte di strutture pubbliche

Recentemente parecchi paesi europei hanno deciso di affidare ad agenzie private il compito di aiutare i disoccupati a trovare un lavoro (con bandi pubblici e con rigidi controlli per impedire il creaming, cioè la tendenza a riservarsi i lavoratori più “facili” da collocare). Tuttavia, il compito di controllare lo stato di disoccupazione è rimasto in capo ai centri per l’impiego pubblico.

4. Sussidi erogati da chi controlla lo stato di disoccupazione

Con l’eccezione dei paesi nordici, ove vige il sistema di Ghent (Leonardi, 2005) e i sussidi sono erogati dai sindacati, per ricevere indennità e sussidi i disoccupati devono recarsi ogni mese presso i centri per l’impiego, ove devono certificare di essere nella condizione di disoccupazione (e del caso anche di disagio economico) e di aver adempiuto alle indicazioni degli operatori dei centri (o delle agenzie private incaricate di collocarli o formarli), cioè di aver cercato attivamente lavoro e di non aver rifiutato le proposte di lavoro ricevute.

5. Grande consistenza degli operatori

L’attività è ad alta intensità di lavoro, anche se la diffusione di internet ha aumentato la produttività degli operatori. In ogni caso resta molto importante il rapporto personale dell’operatore con i disoccupati: nell’Agenzia del lavoro tedesca si raccomanda che ogni operatore si prenda cura di non più di 70 disoccupati e nei paesi scandinavi e in Gran Bretagna si scende addirittura sotto i 30 disoccupati. E devono essere operatori con complesse competenze professionali.

6. Più vasti compiti dei centri per l’impiego verso le imprese e verso i lavoratori

La costante raccomandazione dell’Ocse è che i servizi pubblici per l’impiego assumano un “ruolo globale di fornitori di servizi nel campo della valutazione delle competenze, della definizione dei profili lavorativi, dell’orientamento professionale e della consulenza ai clienti (lavoratori e imprese)”. L’attività di trovare lavoro alle persone in condizioni critiche deve essere accompagnata da un’altrettanta intensa attività volta a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro “non critico”. Solo diventando interlocutori credibili delle imprese per soddisfare la loro normale domanda di lavoro, i centri per l’impiego possono riuscire a collocare lavoratori lungo disoccupati.

Tuttavia, anche dove sono più consistenti ed efficienti, i servizi pubblici per l’impiego non hanno un ruolo dominante: in nessun paese europeo la quota di posti di lavoro vacanti riempiti grazie ai centri per l’impiego va oltre il 15%. Ovunque l’incontro tra domanda e offerta di lavoro avviene soprattutto grazie all’iniziativa dei disoccupati e delle imprese o alle reti di relazioni personali, mentre i centri per l’impiego (ma anche le agenzie private) devono occuparsi dei casi più difficili: da un lato, i lavoratori più deboli per caratteristiche professionali o personali e, dall’altro, le richieste delle imprese più difficili da soddisfare.

 

L’attuale situazione italiana

Delle caratteristiche che contraddistinguono il modello ideale di servizi per l’impiego in Italia attualmente non ne esiste alcuna (ANPAL, 2017; Italia Lavoro, 2013).

Quando a fine 1997 fu abolito il monopolio pubblico, consentendo alle agenzie private di svolgere attività di intermediazione tra imprese e lavoratori, le vecchie strutture del Ministero del lavoro (gli uffici di collocamento) furono trasformate in centri per l’impiego, adottando un modello organizzativo anomalo nel panorama europeo e investendovi scarse risorse. Le caratteristiche del sistema italiano dei servizi pubblici per l’impiego si possono così compendiare.

1. Ruolo esclusivo delle strutture amministrative territoriali e forti differenze operative

Invece di scegliere il modello di un’agenzia (pur presente nella Provincia autonoma di Trento), i servizi per l’impiego furono affidati alle strutture amministrative territoriali. Gli operatori divennero dipendenti delle Province e, con l’abolizione delle Province, sono passati alle Regioni. È il modello di governo del mercato del lavoro più decentrato in tutta Europa.

Tra Stato e Regioni vi sono accordi per stabilire degli standard minimi di funzionamento dei servizi per l’impiego, ma si tratta di documenti con scarsa valenza prescrittiva. Né conta che le Regioni abbiano adottato soluzioni istituzionali simili, perché ciò non ha comportato uniformità dei servizi prestati e delle politiche attuate. Inoltre, la modifica nel 2001 del titolo V della Costituzione ha attribuito alle Regioni il compito di organizzare strutture e modi di erogare i servizi per l’impiego e le politiche attive del lavoro, con la sola esclusione dei sostegni al reddito. L’istituzione dell’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro non ha modificato la situazione, poiché, fallita nel 2017 la riforma costituzionale cui era collegata, le sue funzioni sono limitate a un ruolo di coordinamento, svolto attraverso convenzioni con le Regioni, senza controllo sulle risorse economiche e senza potere di intervento in caso di carenze.

Perciò, accanto a pochissime “isole” di relativo buon funzionamento, pur con gravissime carenze di personale, la gran parte dei centri per l’impiego (soprattutto nel Mezzogiorno) è ridotta a svolgere quasi solo compiti amministrativi. Basti dire che quasi la metà dei centri lamenta di lavorare senza una dotazione informatica adeguata.

2. Assenza delle parti sociali

Un’altra particolarità dei servizi pubblici italiani è l’assenza di ogni ruolo per sindacati e associazioni imprenditoriali. Grazie al nuovo titolo V della Costituzione, le Regioni avrebbero potuto inserire le parti sociali nell’assetto istituzionale dei servizi per l’impiego, ma nessuna l’ha fatto (sola eccezione la Provincia di Trento). Pur in un contesto di indebolimento delle associazioni di rappresentanza, questa assenza indebolisce l’autorità dei servizi per l’impiego.

3. Grandi differenze territoriali nel rapporto tra pubblico e privato (e non solo)

La differenza più rilevante concerne i rapporti con le agenzie del lavoro private. Mentre in alcune regioni sono quasi assenti, o per carenza delle agenzie (come accade nel Mezzogiorno) o per scelta politica dell’Amministrazione regionale, in altre le agenzie private hanno assunto un ruolo importante. Il caso più estremo è quello della Lombardia, ove le agenzie del lavoro sono poste sullo stesso piano dei centri per l’impiego per i finanziamenti regionali e sono autorizzate a certificare lo stato di disoccupazione.

4. Scarso coordinamento tra centri per l’impiego ed ente erogatore dei sussidi di disoccupazione e non applicazione del “principio di condizionalità”

L’Italia è rimasto uno dei pochi paesi europei in cui le indennità di disoccupazione e le altre forme di sussidio non sono erogate dai centri pubblici per l’impiego, ma da un’altra struttura, l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS). Alla separatezza istituzionale si accompagnano gravi disfunzioni organizzative, per cui il sistema informativo dell’INPS “dialoga” male con quelli delle Regioni, cui sono collegati i centri per l’impiego, che spesso non sanno se un disoccupato che hanno “in carico” percepisca o no un’indennità. Basterebbe ciò a impedire di attuare il già vigente “principio di condizionalità”, che vincola l’erogazione dell’indennità alla ricerca attiva del lavoro o all’accettazione dei lavori proposti. Ma il fatto che il principio di condizionalità sia applicato solo in provincia di Trento si deve essenzialmente all’incapacità dei debolissimi centri per l’impiego di controllare i comportamenti dei disoccupati e di intercettare la domanda di lavoro delle imprese.

5. Debolissima consistenza degli addetti ai centri per l’impiego

Con Grecia e Spagna, l’Italia è il paese dell’Europa occidentale che meno ha investito nei servizi pubblici per l’impiego: secondo l’OCSE lo 0,01% del PIL nel 2015, contro percentuali da 4 a 20 volte superiori di Germania, Francia e paesi scandinavi. Attualmente gli operatori dei centri per l’impiego sono poco meno di 8.000, di cui 1.700 in Sicilia e 2.200 nelle altre regioni meridionali, mentre nelle regioni settentrionali gli operatori sono poco più di 2.400 e in quelle centrali 1.600. Il confronto con gli altri paesi europei è impietoso. Adottando come termine di riferimento i disoccupati, dovrebbero essere 28.000 per raggiungere il livello di Olanda e Danimarca, 45.000 per agganciare quello della Germania e addirittura 90.000 per arrivare al livello di Gran Bretagna e Svezia. Un operatore in Italia mediamente dovrebbe occuparsi di oltre 150 disoccupati contro meno di 50 in Germania. Inoltre, il livello di istruzione è basso: i laureati sono solo poco più del 28% contro il 56% di diplomati e il 16% con il titolo di licenza media.

In Italia, anche se solo il 3% dei disoccupati sono collocati dai centri per l’impiego, nel 2011 hanno trovato lavoro attraverso i centri per l’impiego 7 lavoratori per ogni operatore: un valore superiore, sia pur di poco, a quello di servizi pubblici molto efficienti, quali quelli tedeschi, francesi e britannici (Bergamante e Marocco, 2014). Tuttavia, i lavori trovati attraverso i centri per l’impiego sono soprattutto stagionali e di breve durata, poco qualificati, nei servizi pubblici, in agricoltura e nel settore turistico-alberghiero.  

6. Attività per lo più solo amministrativa dei centri per l’impiego

Per carenza di personale e di competenze, le attività previste dalla politica attiva del lavoro (dall’orientamento ai servizi alle imprese, all’incontro tra domanda e offerta di lavoro) sono molto ridotte, mentre le attività principalmente svolte sono quelle burocratiche, che sono spesso complesse e numerose e richiedono attenzione e apprendimento perché cambiano con grande frequenza.

 

Le prospettive

Nel programma del governo Lega-M5S si prevede di introdurre un “reddito di cittadinanza”, che è in realtà un reddito minimo condizionato alla ricerca di lavoro, e quindi di attuare una riforma dei centri per l’impiego adeguata a rispondere alle necessità di “prendere in carico” quasi 4 milioni di beneficiari, con il compito di trovar loro un’occupazione, ma anche di controllarne la disponibilità a cercare lavoro e ad accettare le proposte di lavoro. A parte il rilevante impegno economico, si tratterà di un’impresa non facile e non realizzabile in tempi brevi.

  • Innanzitutto, il Ministero del lavoro dovrà trovare un accordo su un programma d’azione comune tra tutte le regioni, comprese quelle a statuto speciale. Impresa non facile date le forti differenze istituzionali, organizzative e politiche esistenti.
  • Quindi si dovranno avviare dei maxi-concorsi regionali per assumere almeno 50 mila operatori. Poiché dovrebbe trattarsi di concorsi per lo più per laureati, sarà un’impresa lunga e a rischio di ricorsi.
  • Poiché non esistono percorsi formativi adeguati, occorrerà inserire i neo-assunti in momenti di formazione e perché diventino operativi occorrerà ancora tempo. Si dovranno anche trovare nuove sedi per far lavorare migliaia di nuovi operatori e accogliere centinaia di migliaia di nuovi utenti, dotandole dei necessari strumenti informatici.
  • Occorrerà che vi sia uno stretto raccordo tra il sistema informatico dell’INPS (se avrà ancora il compito di erogare i sussidi) e quello dei centri per l’impiego.
  • Per evitare che i percettori del “reddito di cittadinanza” diventino come i lavoratori socialmente utili, i centri per l’impiego dovranno riuscire a proporre loro delle adeguate occasioni di lavoro, passo necessario per attuare il “principio di condizionalità”. Poiché ai centri per l’impiego dovranno affluire molte più domande di lavoro dalle imprese, se non si vuole imporre loro di comunicare i posti di lavoro vacanti, occorrerà che si stabiliscano diffusi rapporti di fiducia.
  • Infine, se i percettori di sussidi dovrebbero essere obbligati a presentarsi ogni mese ai centri per l’impiego per certificare lo stato di disoccupazione e le azioni di ricerca del lavoro compiute, non sarà altrettanto facile, soprattutto nei contesti sociali ed economici più difficili, far accettare il principio di condizionalità in caso di rifiuto di un lavoro adeguato.

 

Riferimenti bibliografici

  • ANPAL (2017), Monitoraggio sulla struttura e il funzionamento dei servizi per il lavoro 2017, Roma.
  • Bergamante F. e Marocco M. (2014), “Lo stato dei servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e sorprese”, Isfol - Occasional Paper, 13.
  • Italia Lavoro (2013), I servizi pubblici per l’impiego. Atlante statistico e cartografico, Roma.
  • Leonardi S. (2005), “Sindacati e welfare state: il sistema di Ghent”, Italianieuropei, maggio.
  • Pastore F. (2015), I centri per l’impiego nei diversi regimi di transizione scuola-lavoro, Roma, Formez.

 

Suggerimenti di lettura

  • Bergamante F. e Marocco M. (2014), “Lo stato dei servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e sorprese”, Isfol - Occasional Paper, 13.

 

* Questa voce consiste in una rielaborazione da Reyneri E. (2018), “I Centri pubblici per l’impiego alla difficile prova del ‘reddito di cittadinanza’”, in FONDAZIONE ASTRID – CIRCOLO FRATELLI ROSSELLI (a cura di), Nuove (e vecchie) povertà: quale risposta? Reddito d’inclusione, reddito di cittadinanza, e oltre, Bologna, Il Mulino.

Emilio Reyneri
Emilio Reyneri è professore emerito di Sociologia del lavoro presso il Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Introduzione alla sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, 2017 e “Le basi sociali del populismo”, in Stato e mercato, 2018, n. 1.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena