Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Lavoro di comunità

Scritto da: Gino Mazzoli

 

Le nuove vulnerabilità del ceto medio

Negli ultimi 15 anni l’oggetto di lavoro dei servizi di welfare, ossia la società, si è profondamente trasformato a motivo del combinato disposto di tre fattori: a) l’evaporazione dei legami sociali (familiari, vicinato); b) la diffusione endemica della vulnerabilità nel ceto medio, che rappresenta in Italia circa il 70% della popolazione); c) il calo consistente delle risorse finanziarie a disposizione della Pubblica Amministrazione.

L’infragilimento del ceto medio precede la crisi finanziaria del 2008-2009 e ha le sue radici nella cultura bulimica dominante che ci induce a comprare, agire, desiderare (beni, diritti, servizi, ecc.) in misura molto maggiore rispetto a ciò che è possibile a noi come singoli e come consorzio umano. Si genera così uno stigma sotterraneo per chi non è “all’altezza” e una diffusa vergogna nel chiedere aiuto quando ci si trova in condizioni di bisogno; ma anche un’esistenza trafelata, dopata e una percezione di costante inadeguatezza rispetto alla perfezione dei modelli proposti. Non a caso, depressione e indebitamento nelle famiglie sono in crescita esponenziale. La depressione è la malattia più diffusa nell’occidente a partire dagli anni ‘70. Secondo la Commissione europea (2005) la percentuale di adulti europei che hanno sofferto di una forma di malattia mentale era intorno al 27% nel 2005.

I nuovi vulnerabili sono in genere proprietari di abitazione, con titoli di studio oltre la scuola dell’obbligo, con reddito da lavoro, ma spesso con una condizione economica traballante dovuta a una vita vissuta al di sopra delle proprie possibilità e alla debolezza delle reti parentali e sociali. Ciò produce uno scivolamento silenzioso verso la povertà per eventi che negli anni ‘60 e ‘70 erano “naturali” (perdita temporanea del lavoro, separazioni coniugali, nonni che da caregiver si trasformano in persone da assistere) e che oggi la penuria di legami trasforma in fattori di impoverimento.

Intercettare i vulnerabili quando hanno ancora una dotazione ragguardevole di risorse per gestire i problemi che li attraversano, significa dedicare tempo per ascoltarli e provare a riorientare il loro stile di vita. Intercettarli domani, quando saranno necessari anche soldi, renderà impossibile l’intervento. Se un 30% di nuovi poveri si abbattesse su un welfare con meno disponibilità finanziarie, i servizi collasserebbero e si aprirebbe un forte conflitto tra cittadini e istituzioni, già ora avvisabile. Il sentimento popolare sta infatti virando dalla vergogna al risentimento. Per questo il lavoro di comunità è divenuto una frontiera essenziale per la tenuta e lo sviluppo della democrazia. Questi cittadini vanno aiutati a trasformare una posizione meramente rivendicativa in un’altra capace di co-generare, insieme a istituzioni e terzo settore, nuove risposte da progettare e gestire in modo partecipato.

Lo sbriciolamento dei legami sociali ha creato una nuova scena nei rapporti tra istituzioni, terzo settore e cittadini. Se fino a 15 anni fa gli attori sociali e istituzionali operavano fruendo “naturalmente” di un fitto tessuto di relazioni, oggi quegli stessi soggetti si trovano ad avere un “intorno” circoscritto di persone con cui sono in stretta relazione, mentre aumenta un’area di cittadini che vive relazioni sociali esigue spesso solo virtuali. In questa nuova situazione è necessario per tutti gli attori sociali ‘farsi soglia’ verso queste nuove aree a legami sociali evaporati, attualizzando in senso nuovo gli articoli della Costituzione che sanciscono il principio di sussidiarietà (artt. 2 e 118). La Costituzione è stata pensata in un momento in cui erano forti i legami sociali e l’esigenza che lo Stato non si intromettesse nelle attività che le formazioni minori sono in grado di svolgere. La nuova situazione impone però di accompagnare la generazione di nuovi legami sociali.

 

La via intermedia alla costruzione di un nuovo welfare

Tra proposte di tagli indiscriminati al welfare (con servizi integrativi a pagamento per i più abbienti) e gestione della decadenza di servizi eccellenti (mentre crescono forme di auto-organizzazione sommersa o for profit) sembra più fruttuosa una via diversa caratterizzata da alcuni obiettivi strategici:

  1. Generare nuove risorse corresponsabilizzando cittadini e forze della società civile, con la regia del pubblico, capaci di accompagnare la crescita di nuove risposte e di favorirne l’autonomia all’interno di un mercato sociale co-costruito e co-gestito da tutti gli attori.
  2. Cercare collaboratori (più che utenti) con cui gestire i problemi, come i vicini di casa, i vigili urbani o i gestori di esercizi commerciali. Non serve un’indiscriminata proliferazione di operatori sociali, che rischia di mortificare le risorse di resilienza della popolazione, bensì pochi operatori dotati di nuove e molto complesse competenze di allestimento di set partecipati e di accompagnamento.
  3. Andare verso i nuovi vulnerabili che hanno vergogna a mostrare le loro fragilità, anziché attenderli in qualche servizio.
  4. Far transitare le istanze dei singoli da “io” a “noi”, favorendo la costruzione di contesti in cui sia possibile un’elaborazione collettiva dei disagi individuali.
  5. Individuare oggetti di intervento utili e non stigmatizzanti.
  6. Dare nomi nuovi a problemi nuovi, andando oltre le categorie tradizionali di utenti stratificatesi nel tempo all’interno della Pubblica Amministrazione.

Il lavoro di comunità diventa così il nucleo centrale (“core”) dell’attività dei servizi. Oggi si tratta di re-includere una maggioranza di cittadini in esodo dalla cittadinanza, in condizioni di infragilimento diffuso e di connettere isole di solidarietà perimetrate. Non si tratta più di chiedere al barista di accogliere un paziente psichiatrico, ma di chiedere allo stesso barista di avere attenzioni verso anziani fragili che faticano a chiedere aiuto. È un lavoro enorme che riguarda tutta la società e che non può essere portato avanti senza la collaborazione di tutti.

 

Le tre fasi del lavoro di comunità

“Lavoro di comunità” rischia di essere una classica “locuzione-coperta” sotto la quale si nascondono ipotesi, strategie e metodologie molto differenti tra loro. Si indicano qui le caratteristiche salienti del lavoro di comunità del 2018, segnalando i rischi che corre un’impostazione attardata sul modello consolidatosi negli anni in cui vigeva una maggiore coesione sociale.

Si possono individuare tre fasi nel nuovo lavoro di comunità richiesto dal tempo presente: a) aggancio dei cittadini; b) attivazione per assumere una posizione attiva e collaborante nei gruppi di lavoro; c) manutenzione del gruppo e del processo costruito.

 

Aggancio

Ho inviato la lettera a tutti gli abitanti del quartiere, ho sollecitato tutte le associazioni e ci siamo ritrovati in tre”. L’evaporazione dei legami sociali e la perimetrazione autoreferenziale delle nuove forme di solidarietà, chiede modalità non tradizionali di aggancio, soprattutto se ci si propone di coinvolgere persone che, pur avendo consistenti problemi, non si rivolgono ai servizi: meglio un passaparola tramite figure di riferimento del paese/quartiere che sappiano dove bussare che lettere o mail. Al contrario, Facebook e WhatsApp sono utilissimi per certe fasce di popolazione.

Centrale è la scelta di oggetti di lavoro circoscritti, utili e non stigmatizzanti per connettersi con persone indebitate che provano vergogna nel mostrare la loro situazione. Sembra più promettente, ad esempio, convocare un incontro sulle modalità per risparmiare sulle utenze fisse, sulle opportunità per andare in vacanza a prezzi contenuti insieme ad altre famiglie. Ogni oggetto, luogo, persona è una “scusa”, una “porta” per intercettare i nuovi vulnerabili.

Servono creatività e capacità di uscire da consuetudini proposte come iniziative innovative:

  • Una banca del tempo che non tenga conto dell’infragilimento delle reti diventerà ben presto un club riservato;
  • Erogare microcredito a persone cronicamente marginali diventa una forma mascherata di sussidio, mentre investire in persone interessate a scommettere consente risultati molto più interessanti, come insegna del resto l’esperienza delle Banca dei poveri di Yunus;
  • Nei servizi pubblici e nel terzo settore si fatica ad assumere l’ottica della re-inclusione dei vulnerabili, ma occorrerebbe per questi ricostruire con-senso (un senso costruito insieme) intorno alla loro utilità; il nuovo lavoro con la comunità diventa così un’occasione cruciale per ricostruire vicinanza tra istituzioni e cittadini.

 

Attivazione

Le persone agganciate non diventano automaticamente collaborative. A questo scopo è necessario costruire un clima di fiducia generabile solo all’interno di un fare riconosciuto come utile. Decisivo è l’investimento nella convivialità e l’allestimento di laboratori partecipativi per generare risposte rispetto a problemi ritenuti centrali dalle persone coinvolte.

Elemento centrale per attivare le persone è la riflessività. Senza spazi di riflessione la prassi si vota alla riproduzione delle routine consolidate. Questi laboratori hanno il loro baricentro verso il fuori, verso la costruzione di progetti; si differenziano dai gruppi di mutuo aiuto, formazione e progettazione, perché aprono finestre riflessive durante il fare, affinché le persone possano vedere ciò che stanno facendo e costruire insieme le ragioni per cui lo fanno.

All’operatore è richiesto di assumere una posizione simmetrica rispetto ai partecipanti al laboratorio, partendo dal riconoscimento di una comune condizione di vulnerabilità. Si tratta di un aspetto culturale non semplice all’interno di servizi che sono impostati prevalentemente in una logica dissimmetrica. Si tratta di nuove competenze su cui si sta lavorando molto poco.

Nell’attivazione del lavoro di comunità e nella progettazione partecipata di servizi sono andati consolidandosi alcuni strumenti di discussione (Open space technology, Teatro dell’oppresso, ecc.) molto funzionali per raccogliere indicazioni in grandi agorà o per sbloccare/accelerare situazioni incistate. Il rischio che si corre in queste situazioni è quello di illudersi di avere esaurito la pratica di comunità nell’utilizzo una tantum di questi strumenti, come se l’eruzione di tanti pareri giustapposti possedesse di per sé un valore catartico. Il cuore del problema è cosa succede dopo questi importanti momenti di costruzione simbolica di senso. Se nessuno allestisce successivamente dei gruppi di lavoro in grado di ricomporre le differenze, costruire orientamenti comuni e mettersi all’opera, è forte il pericolo che questi strumenti vengano utilizzati come kermesse-spettacolo per rivestire di democrazia processi decisionali poco condivisi con la gente.

Più promettenti sembrano gruppi/laboratori non troppo numerosi (20-25 persone al massimo) connessi tra loro in modo da costruire una massa critica di persone che periodicamente si convocano per resocontarsi reciprocamente cosa si sta costruendo.

 

Manutenzione

La fase manutenzione dei laboratori è quella più complessa. Si tratta di accompagnare con determinazione la nascita e la crescita di nuove forme di vita sociale, favorendo l’emersione di nuovi protagonismi, ma allo stesso tempo contenendo le spinte distruttive e autodistruttive volte a privatizzare questi beni pubblici. Si tratta anche di dinamiche che in tempi di narcisismo dilagante sono diffuse anche all’interno di percorsi partecipati caratterizzati da consistenti slanci di abnegazione.

A questo scopo è cruciale avere cura dell’organizzazione (temporanea ma complessa), che accompagna il lavoro di questi gruppi, che è in grado di favorire la riflessività, costruire indirizzi comuni e monitorare i processi che si sviluppano. Sono tavoli a composizione mista (assessori, cittadini, associazioni, operatori sociali pubblici e privati) a “porte girevoli”, cioè a composizione variabile a seconda di chi il percorso partecipativo aggancia e perde nel suo svolgersi.

Questi dispositivi di governance presentano caratteristiche costanti:

  • Fare lavoro di comunità richiede la competenza di ridefinire più volte l’architettura dell’organizzazione allestita lungo l’arco di vita di un singolo progetto;
  • Presentarsi come luoghi generativi di risorse perché in grado di connettere differenze (dalla strumentalità all’oblatività);
  • Capacità di diventare nel tempo dispositivi di monitoraggio del territorio ben al di là dell’oggetto di lavoro in funzione del quale sono nati;
  • Essere investimento simbolico per quelle persone che si rivolgono a questi luoghi facendoli apparire come sostitutivi di altri soggetti politici e sociali nei quali non si è più in grado di investire. Ciò li rende nuovi corpi intermedi, oltre - non contro - le organizzazioni del terzo settore già esistenti, ovvero soggetti collettivi in grado di generare nuovo immaginario progettuale.

Cruciale poi per la produzione progettuale dei laboratori è la loro durata: non deve richiedere meno di 12-18 mesi. Spesso si produce un’evidente impazienza da parte di dirigenti e politici verso queste nuove forme di coinvolgimento della cittadinanza, come se dovessero mostrare rapidamente la loro performatività per poter essere sostenute nel tempo. Al riguardo vale la pena di sottolineare due aspetti.

Le attenzioni segnalate rispetto alle tre fasi del lavoro di comunità sarebbero ben poca cosa se non durassero nel tempo. È questa sorta di “bagnomaria” operativo-riflessivo, formulabile in un’espressione matematica (fare + pensare) * durare, che garantisce la generazione di progettualità innovative.

E infine, i percorsi di lavoro di comunità sono un prodotto innovativo, costretto spesso a navigare controcorrente; è costante il rischio della loro riduzione all’irrilevanza. Dunque, la visibilità periodica dei prodotti partecipativi realizzati deve rappresentare un’attenzione costante, per consentire ai diversi attori, di apprezzarne gli esiti (video, convegni, libri, ecc.). Dare notizia di questi successi alimenta la fiducia che un modo diverso di stare in questo mondo è possibile.

Al riguardo è sufficiente considerare i diversi livelli del prodotto in gioco all’interno di questi percorsi: una parte manifesta (ad es. sconto sulla bolletta del telefono) e una parte implicita ma decisiva (ad es. costruzione di legami sociali). Si potrebbe dire paradossalmente che progettare e realizzare servizi è una scusa per favorire la riflessione e dunque il riorientamento.

Per fare tutto questo servono nuove competenze per formare le quali vanno chiamati a un lavoro congiunto università, regioni, enti locali, aziende sanitarie locali e terzo settore. Non è semplice destrutturare routine che vedono al centro della scena da decenni i servizi. Ma le ristrettezze finanziarie e l’evoluzione della storia rendono questo obiettivo ineludibile. È responsabilità nostra trasformare quest’obbligo in un’opportunità per rendere la società più a misura delle persone.

 

Riferimenti bibliografici

  • Commissione Europea (2005), LIBRO VERDE. Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione Europea, Bruxelles, Commissione Europea.

 

Suggerimenti di lettura

  • Mazzoli G. (2010), “Articolare la partecipazione in tempo di esodo dalla cittadinanza”, Animazione sociale, 245, 31-67.
  • Mazzoli G. (2013), “Come cambia il lavoro di comunità”, Welfare oggi, 3/2013.
  • Sennet R. (2008), L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli.
  • Sennet R. (2012), Insieme, Milano, Feltrinelli.
  • De Certeau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma, Lavoro.
Gino Mazzoli
Gino Mazzoli è uno psicosociologo che da trent’anni progetta e accompagna percorsi partecipati per allestire servizi di welfare in diverse regioni italiane. Negli ultimi dieci anni si è occupato soprattutto del crescente disagio invisibile del ceto medio costruendo percorsi di welfare generativo. Insegna all’Università Cattolica di Milano nel corso di Psicologia clinica e di comunità. Il suo Studio di formazione e consulenza si chiama Praxis e ha sede a Reggio Emilia.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena