Glossario

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Meritocrazia e meritorietà

Scritto da: Stefano Zamagni

 

Origine

Introdotto per primo dal sociologo inglese Michael Young nel 1958, il concetto di meritocrazia è andato via via crescendo di rilevanza nel dibattito pubblico sia di politica sia di economia. Il termine meritocrazia è l’unione del latino merere, mereor (guadagnare, farsi pagare) e del greco kratos (potere). Meritocrazia è dunque, letteralmente, il potere del merito, cioè il principio di organizzazione sociale che fonda ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito. Quest’ultimo è definito da Young (1958) secondo la ormai ben nota formula: m= IQ + E, dove m sta per merito, IQ per quoziente di intelligenza, E per sforzo. Il merito è dunque la risultante di due componenti: il talento che ciascuno ottiene dalla lotteria naturale e l’impegno profuso dal soggetto nello svolgimento di attività o mansioni varie. Nelle versioni più raffinate, la nozione di talento tiene conto delle condizioni di contesto, dal momento che il quoziente di intelligenza dipende anche dall’educazione ricevuta e da fattori socio-ambientali. Del pari, la nozione di sforzo viene qualificata in relazione alla matrice culturale della società in cui cresce e opera l’individuo, e ciò perché l’impegno dipende oltre che dai “sentimenti morali”, anche dal riconoscimento sociale, cioè da quello che la società reputa di dover giudicare meritorio e da quello che Adam Smith chiamava la “simpatetica corrispondenza” tra i partner sociali. Invero, è un fatto a tutti noto che la medesima abilità personale e il medesimo sforzo vengono valutati diversamente a seconda dell’ethos pubblico prevalente nella società.

Ecco perché il criterio meritocratico, secondo il giudizio del suo inventore, non può essere preso come criterio, né primo né principale, per la distribuzione delle risorse di potere, sia economico sia politico. Young fu talmente persuaso della pericolosità di tale principio che arrivò a scrivere nel 2001 un articolo in cui lamentò il fatto che il suo saggio del 1958 fosse stato interpretato come un elogio e non come una critica radicale della meritocrazia intesa come sistema di governo e organizzazione dell’azione collettiva basato sulla formula di cui sopra. Già il filosofo americano Thomas Nagel (1998) era intervenuto sull’argomento chiedendosi se è moralmente ammissibile che qualcuno venga avvantaggiato nell’esercizio del potere per qualcosa che gli è stato concesso dalla natura. “Come la bellezza – scrive il filosofo della politica – anche il talento e l’eccellenza attraggono il riconoscimento, l’ammirazione, la gratitudine – risposte che nella vita umana rientrano tra le ricompense naturali. Ma le ricompense economiche [e politiche] che taluni talenti sono in grado di esigere sono un’altra storia” (p.113). Come a dire che non è giusto che una grande competenza scientifica o un’elevata produttività siano in grado di avanzare un’automatica legittimazione di pretese politiche di potere. In buona sostanza, il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento – come Aristotele aveva chiaramente intravisto – verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano, alla lunga, alla eutanasia del principio democratico.

 

Perché la meritorietà è differente

Ben diverso è il giudizio nei confronti della meritorietà che è il principio di organizzazione sociale basato sul “criterio del merito” e non già del “potere del merito”. È certo giusto che chi merita di più ottenga di più, ma non tanto da porlo in grado di disegnare regole del gioco – economico e/o politico – capaci poi di avvantaggiarlo. Si tratta cioè di evitare che le differenze di ricchezza associata al merito si traducano in differenze di potere decisionale. Se non è accettabile che tutti gli uomini vengano trattati egualmente – come vorrebbe l’egualitarismo è però necessario che tutti vengano trattati come eguali, il che è quanto la meritocrazia non garantisce affatto. In altro modo, mentre la meritocrazia invoca il principio del merito nella fase della distribuzione della ricchezza, cioè post-factum, la meritorietà si perita di applicarlo anche nella fase della produzione della ricchezza, mirando ad assicurare l’eguaglianza delle capacità (capabilities). F. von Hayek, tra i più strenui difensori delle ragioni della libertà: “Possiamo ammettere che la democrazia non pone il potere nelle mani dei più saggi e dei meglio informati e che la decisione di un governo di élite potrebbe essere, nel suo insieme, più benefica. Ma questa ammissione non può impedirci di continuare a preferire la democrazia” (1969, p.133). In buona sostanza, il problema serio con la nozione di meritocrazia non sta nel merere (guadagnare) ma nel kratos (potere). La meritorietà, invece, fa propria la distinzione tra merito come criterio di selezione tra persone e gruppi e merito come criterio di verifica di una abilità o risultato conseguito. Il primo è respinto; il secondo è accolto. La meritorietà è dunque la meritocrazia depurata della sua deriva antidemocratica. (Già Aristotele aveva scritto che la meritocrazia non è compatibile con la democrazia).

 

La meritocrazia ai giorni nostri

Come darsi conto della crescente insistenza nel corso degli ultimi tempi sul principio meritocratico? Per rispondere, è opportuno fare parola della inversione del nesso di dipendenza tra mercato e democrazia quale si è venuto realizzando a partire dall’affermazione della globalizzazione e della terza rivoluzione culturale. Se fino ad allora era stata l’economia a seguire la politica, a far tempo dagli anni ’80, è stata la politica a porsi al servizio dell’economia. Ciò ha fatto credere che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’irrobustimento del principio democratico. Due le implicazioni principali che ne sono derivate.

La prima è l’idea, profondamente errata, secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun filtro etico perché già conterrebbe al proprio interno quei principi morali che sono sufficienti alla sua legittimazione e perfino giustificazione. Ma come bene argomenta Tognon (2016) così non è. La seconda implicazione è che se la democrazia – che è un bene fragile, come insegnava Aristotele – si degrada, può accadere che la società non possa progredire non tanto per qualche difetto dei meccanismi del mercato, quanto piuttosto per un deficit di democrazia. È ormai di dominio comune il fatto che non può esserci sviluppo sostenibile di lungo termine al di fuori di un contesto realmente democratico.

Dal combinato disposto delle due implicazioni si è tratta la conclusione che un assetto politico è accettabile se è funzionale all’efficienza, vale a dire se è in grado di governare gli interessi delle diverse classi sociali. Una volta posta l’efficienza, e quindi la crescita economica, a criterio di verità dell’agire politico è evidente che la meritocrazia diventasse lo slogan da sbandierare per giustificare la svolta di cui si è dinanzi detto.

 

Riferimenti bibliografici

  • von Hayek G. (1960), The Constitution of Liberty, Chicago, University of Chicago Press (trad. it., La società libera, Firenze, Vallecchi, 1969).
  • Nagel T. (1991), Equality and Partiality, Oxford, Oxford University Press (trad. it., I paradossi dell’eguaglianza, Milano, Il Saggiatore, 1998).
  • Tognon G. (2016), La democrazia del merito, Roma, Salerno Editrice.
  • Young M. (1958), The rise of the meritocracy, Londra, Thames & Hudson.
  • Young (2001), “Down with meritocracy”, The Guardian, 29 giugno 2001.

 

Suggerimenti di lettura

  • Abravanel R. (2008), Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, Milano, Garzanti Libri.
  • Dench G. (2007, a cura di), The rise and rise of meritocracy, Oxford, Wiley-Blackwell.
Stefano Zamagni
Stefano Zamagni è stato professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) ed è Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, SAIS Europe. È membro del comitato scientifico di numerose riviste economiche e dal 2019 è Presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. È autore inoltre di numerose pubblicazioni - libri, volumi editati, saggi - di carattere scientifico e di contributi al dibattito culturale e scientifico.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena