Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Disuguaglianze culturali

Scritto da: Stefano Zamagni

 

Definizione

Preso atto che le nostre società tendono a diventare sempre più società di immigrazione e di emigrazione, come configurare il rapporto tra multiculturalità e identità se si vuole che la pluralità delle culture presenti in un paese risulti compatibile con un ordine sociale garante della pace sociale e delle ragioni della libertà? Secondo, riconosciuto che lo scarto crescente tra cittadinanza economica e cittadinanza socio-politica dell’immigrato ha ormai raggiunto un livello non più in grado di assicurare la dignità della persona umana, cosa fare per conciliare l’inclusione economica dell’immigrato con la sua esclusione dai diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno aggiornate, sia del modello assimilazionista di marca francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazione degli immigrati (cioè della loro apartheid), sia ancora del modello dell’autogoverno delle minoranze, non resta che la via dell’integrazione dei nuovi arrivati nella società di accoglienza. Ma quale modello di integrazione si intende realizzare? La proposta che l’autore giudica adeguata è quella del modello di integrazione interculturale. Il suo presupposto è che lo Stato laico, cioè neutrale, ma non indifferente, nel perseguire l’obiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura nazionale, adotta quale presupposto per l’integrabilità che le culture presenti nel paese concordino tutte su - cioè facciano proprio - un nucleo duro di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura: libertà, dignità umana, rispetto della vita, minimo vitale.

 

Il modello culturale dominante

Sorge spontanea la domanda: poiché non è mai lecito giudicare una cultura servendosi di un’altra come unità di misura, e poiché i diritti universali dell’uomo sono un’acquisizione della cultura occidentale, non c’è forse il rischio che il principio conduca all’imperialismo culturale? No, perché il fatto che valori come quello della dignità umana e teorie come quella dei diritti umani usino il linguaggio della cultura occidentale non è segno di pregiudizio etnocentrico; piuttosto è indicazione del fatto che l’Occidente è giunto prima di altri contesti a prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi razionali. E pertanto, proprio perché giustificati per via di ragione, questi valori sono estensibili, in linea di principio, a tutti gli uomini. In altri termini, la nozione di diritti umani non è esclusiva dell’Occidente, - come A. Sen ha da tempo mostrato - anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei diritti. Il contenuto di tali diritti non è specifico di una determinata cultura, anche se è vero che c’è oggi un modello culturale dei diritti umani che è dominante, quello occidentale appunto.

Per rispettare una richiesta non abbiamo bisogno di condividerla; dobbiamo piuttosto accertare che essa rispecchi un punto di vista morale che, pur non coincidendo con il nostro, non solo non contraddica i diritti umani fondamentali, ma costituisca un modo progressivo di traduzione degli stessi. Le richieste condivisibili, invece, sono quelle che realizzano il progetto di vera e propria ibridazione culturale, ovvero quello della “integrazione con interazione”, come si è espresso di recente sul tema il Consiglio d’Europa. Valgano alcuni esempi, per chiarire il punto. Mentre si può tollerare – ma non certo rispettare, né a fortiori condividere – l’espressione di idee religiose che discriminano contro la donna, non può essere in alcun modo tollerata la prassi che discendesse da quell’espressione. Ancora, mentre possiamo tollerare la posizione di quei movimenti religiosi o di quelle culture che vorrebbero rifondare il demos (il principio democratico) nel logos (la verità religiosa), non è certo rispettabile e tanto meno condivisibile la richiesta di chi volesse ricondurre le forme del politico ad un qualche fondamento sacro. Ancora, mentre possiamo condividere la richiesta di riforma del curriculum delle scuole (storia e letteratura, poniamo) per dare un certo riconoscimento ai contributi culturali delle minoranze etnoculturali, dovremmo fermarci al livello del rispetto per quanto attiene la revisione dei moduli di lavoro, delle regole di abbigliamento, dell’adattamento dei luoghi di lavoro. E così via.

 

Come affrontare un progetto interculturale

L’identificazione dei tre livelli di giudizio – tollerabilità, rispettabilità, condivisibilità – produce una conseguenza pratica di grande momento, quella di offrire un criterio sulla cui base procedere all’attribuzione di risorse pubbliche ai vari gruppi di minoranze etnoculturali presenti in un paese. Si potrebbe, infatti, stabilire che le richieste giudicate tollerabili non ricevono risorse, monetarie o di altra natura, dallo Stato o dagli altri enti pubblici; le richieste giudicate rispettabili ricevono un riconoscimento a livello amministrativo, entrano cioè nell’ordinamento amministrativo dello Stato; le richieste giudicate condivisibili vengono accolte nell’ordinamento giuridico del paese ospitante, con tutto ciò che questo comporta in termini di destinazione di risorse pubbliche.

Da ultimo, che ne è di quelle culture che chiedono di partecipare al progetto interculturale, ma che non accettano di trasformarsi per accogliere lo statuto dei diritti fondamentali? A ciò dà risposta il quinto principio: lo Stato, in nome dei diritti del cittadino - i quali, a differenza dei diritti dell’uomo, non hanno fondazione giusnaturalistica - destinerà risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli ad evolvere verso posizioni capaci di accogliere i diritti fondamentali dell’uomo. È questo il significato del principio che chiamo della “tolleranza condizionata”: ti aiuto perché tu possa fare posto, dentro la tua matrice culturale e secondo i modi propri della tua cultura, all’accoglimento dei diritti fondamentali. È noto che le culture hanno la tendenza a adattarsi all’evolversi delle situazioni; non sono qualcosa di statico. E dunque l’educazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di affermare la propria identità culturale sia di andare oltre qualora essa non si dimostri capace di afferrare l’universalità dei diritti fondamentali.

L’autore è dell’avviso che il principio della tolleranza condizionata rappresenti il punto di equilibrio più avanzato tra l’esigenza, da un lato, di tener conto delle difficoltà di adattamento rapido al nuovo contesto culturale in cui viene a trovarsi il nuovo arrivato e, dall’altro, di non concedere sconti a chi chiede di integrarsi nella società di accoglienza per diventarne cittadino

Il modello di integrazione interculturale qui abbozzato è fondato sull’idea del riconoscimento del grado di verità presente in ogni visione del mondo, un’idea che consente di fare stare assieme il principio di eguaglianza interculturale (che è declinato sui diritti universali) con il principio di differenza culturale (che si applica ai modi di traduzione nella prassi giuridica di quei diritti) . L’approccio del riconoscimento veritativo, qui accolto, non ha altra condizione se non la “ragionevolezza civica” di cui parla W. Galston: tutti coloro che chiedono di partecipare al progetto interculturale devono poter fornire ragioni per le loro richieste politiche; nessuno è autorizzato a limitarsi ad affermare ciò che preferisce o, peggio, a fare minacce. Non solo, ma queste ragioni devono avere carattere pubblico, - in ciò sta la “civicità” - nel senso che devono essere giustificate mediante termini che le persone di differente fede o cultura possono comprendere e accogliere come ragionevoli e dunque tollerabili, anche se non pienamente rispettabili o condivisibili. Solo così le differenze identitarie possono essere sottratte al conflitto e alla regressione.

 

Suggerimenti di lettura

  • De Certeau M. (2010), Lo straniero o l’unione nella differenza, Milano, Vita e Pensiero.
  • Habermas J. (1998), L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli.
  • Honneth A. (2002), La lotta per il riconoscimento, Milano, Il Saggiatore.
  • Zamagni S. (2007), “Migrazioni e politiche d'integrazione economica: un esame critico”, Studi Emigrazione, 165, 5-18.
  • Zamagni S. (2014), “Disuguaglianze e giustizia benevolente”, in C. Danani e B. Giovanola (a cura di), L’essere che è, l’essere che accade, 363-374, Milano, Vita e Pensiero.
Stefano Zamagni
Stefano Zamagni è stato professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) ed è Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, SAIS Europe. È membro del comitato scientifico di numerose riviste economiche e dal 2019 è Presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. È autore inoltre di numerose pubblicazioni - libri, volumi editati, saggi - di carattere scientifico e di contributi al dibattito culturale e scientifico.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena