Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Nuova governance d'impresa

Scritto da: Stefano Zamagni

 

I quesiti dietro la nuova governance

Si prendono qui le mosse da un triplice quesito. Primo, perché le imprese di oggi hanno necessità di giungere ad un gender balance che riguardi tutti i gradini della scala aziendale e non solamente quelli di vertice? In altri termini, perché il management ha da essere bilingue, deve cioè saper parlare la lingua sia maschile sia femminile? Secondo, perché è giunto il tempo di abbandonare l’immagine, tanto inflazionata, del “tetto di cristallo” in favore di quella, assai più pertinente, di pareti aziendali fatte di “amianto di genere”? Quanto a dire, perché non ha più senso chiedersi – come accadeva fino ad anni recenti – cosa c’è che non va con le donne se queste non riescono ad arrivare in cima alla gerarchia aziendale? In un tempo in cui quasi il 60% dei laureati sono donne, la cui performance professionale è, in media, superiore a quella degli uomini, la domanda giusta da porsi è: cosa c’è che non va nelle imprese di oggi se non riescono ad attrarre o a garantire avanzamenti di carriera a coloro che ormai compongono la più parte del bacino dei talenti? Perché è così difficile abbattere i “muri di amianto” che circondano le imprese?

La terza domanda, infine, ha a che vedere con il metodo, cioè con la via che è opportuno seguire per giungere al gender balance con lo sforzo congiunto di uomini e donne. Una proposta che da qualche tempo viene avanzata è quella di intervenire sui cicli di carriera delle donne, notoriamente asincronici e sfasati rispetto a quelli degli uomini. Come noto l’organizzazione tayloristica del lavoro che si è affermata, in modo egemonico, nel corso del Novecento, prevede tre cicli distinti. La carriera inizia intorno ai vent’anni di età, quando al giovane lavoratore si chiede di imparare a fare e soprattutto ad obbedire; accelera nei trent’anni di età, quando il neo-dirigente o funzionario deve mettere alla prova le sue abilità relazionali e le sue capacità di suscitare fiducia; consegue il picco nei quarant’anni, quando il dirigente spicca il volo verso il top management. Va da sé che questo pattern lineare e soprattutto ininterrotto, pensato per l’uomo bread winner, non si confà alla situazione della donna che, nel corso dei suoi anni trenta, intendesse generare figli e dedicarsi alla famiglia. Accade così quello che le statistiche puntualmente confermano: al loro rientro in azienda agli inizi del loro terzo ciclo, le donne trovano le posizioni apicali già occupate dagli uomini. Non sono dunque i figli di per sé ad impedire l’avanzamento di carriera delle donne, quanto piuttosto il modo arcaico in cui continuano ad essere gestiti nelle imprese i cicli di carriera del personale.

 

Perché il gender balance diventa importante

Se le cose stanno come l’evidenza suggerisce (e ciò che le aziende guidate da donne hanno aumentato più velocemente il fatturato e hanno accresciuto il margine operativo lordo chiudendo con maggior frequenza l’esercizio in utile); se cioè il divario di genere e le associate disparità salariali tra uomini e donne non solamente sono fenomeni “incivili”, ma anche economicamente dannosi, cosa ha provocato una tale presa d’atto? Perché mai solamente nell’ultimo quarto di secolo – in Italia assai meno – si è diffuso il convincimento secondo cui la questione di genere costituisca oggi per l’impresa una delle sfide più impegnative per la sua stessa sostenibilità?

L’ipotesi interpretativa che si avanza qui è che in parallelo con l’evento della globalizzazione e soprattutto della quarta rivoluzione industriale – le economie di mercato di tipo capitalistico sono andate soggette ad un mutamento di fase, per così dire. Mentre il capitalismo della modernità – che aveva separato, anche in senso fisico, i luoghi di vita familiare dai luoghi di lavoro – vede la donna vocata principalmente al lavoro riproduttivo, il capitalismo della post-modernità va facendo rientrare a pieno titolo la donna anche nel sistema del lavoro produttivo. Perché? La ragione è presto detta. La grande novità delle nuove tecnologie è quella di rendere obsoleta (e quindi scarsamente produttiva) l’organizzazione tayloristica del lavoro. Il 1911 è l’anno di pubblicazione in America della fondamentale opera di F. Taylor, un’opera che si richiama esplicitamente all’insegnamento dell’inglese Charles Babbage dei primi dell’Ottocento sulla divisione del lavoro e della cui nefasta influenza sulla condizione della donna scriverà poi il grande economista (e filosofo) J.S. Mill (1869). Ebbene, come tutti gli esperti di organizzazione aziendale ben sanno – eccetto coloro che ancora si ostinano a leggere la realtà con l’occhiale dell’homo oeconomicus – una gestione vincente dell’impresa nelle condizioni attuali postula che vengano adottati principi e vengano trasferiti nell’agire quotidiano valori rispetto ai quali la donna esibisce un marcato vantaggio comparato nei confronti dell’uomo.

Di che si tratta? Del principio di equità; del principio di reciprocità; del bilanciamento tra motivazioni estrinseche e motivazioni intrinseche. La letteratura di economia sperimentale sul gioco dell’ultimatum – che ormai è schiera – ha abbondantemente confermato che le donne sanzionano i comportamenti considerati iniqui in misura marcatamente superiore rispetto agli uomini. Come a dire che le donne, ceteris paribus, sono portatrici di un più forte senso di equità degli uomini. Oggi sappiamo che il fattore decisivo che concorre a sostenere la corporate culture e ad alimentare la fiducia entro l’azienda è l’equità. Mai un manager potrà trasmettere fiducia all’interno della propria compagine e quindi mai potrà essere obbedito – obbedire, letteralmente, significa “dare ascolto” – se i suoi collaboratori scoprono che si comporta in modo iniquo.

Discorso analogo è quello che riguarda il principio di reciprocità (da non confondersi con quello dello scambio di equivalenti). L’economia comportamentale, oltre che la psicologia e la sociologia, confermano che nella pratica della reciprocità le donne sono molto più avanti degli uomini – questi ultimi sono invece superiori nella pratica dello scambio di equivalenti. Qual è l’implicazione rilevante ai fini qui perseguiti? Che alle donne viene spontaneo applicare nei contesti lavorativi il paradigma della razionalità espressiva piuttosto che quello della razionalità strumentale. Ed oggi, come l’evidenza fattuale afferma, è l’applicazione del primo paradigma di razionalità a dare i risultati migliori e soprattutto più duraturi. A livello aziendale un modo spedito di accertare la predisposizione dei lavoratori ai due paradigmi di razionalità è quello di sottoporre uomini e donne alle tecniche del feed-back e del feed-forward. Si troverà che, mentre gli uomini eccellono nel feed-back, le donne prevalgono nel feed-forward, grazie alla loro maggiore capacità di “relazionamento reciprocante”.

 

Le motivazioni che muovono all’azione

Una osservazione finale a proposito delle motivazioni che muovono all’azione un soggetto. È noto che tre sono le tipologie di motivazioni: estrinseche (si lavora per la remunerazione e/o il prestigio che se ne ricava); intrinseche (il lavoro che si svolge è un fine in sé che concorre ad affermare la propria identità); trascendenti (si opera per produrre economie esterne, cioè vantaggi di un tipo o dell’altro, che accrescono il bene comune). È a tutti noto inoltre – tranne che a coloro che conservano una visione hobbesiana della realtà secondo cui homo homini lupus – che i tre tipi di motivazione sono presenti in tutte le persone, sia pure in proporzioni diverse e ciò in relazione all’educazione ricevuta, alla matrice culturale della società di appartenenza, al genere umano. Ebbene, si dimostra che, a parità delle prime due determinanti, il sistema motivazionale delle donne vede la prevalenza delle componenti intrinseche e trascendenti, mentre quello degli uomini vede la prevalenza della componente estrinseca. Quale la rilevanza pratica di tale scoperta? Per un verso, che la donna tende a privilegiare la competizione cooperativa – quella del win-win – piuttosto che la competizione posizionale – quella del super star effect: the winner takes all, the loser loses everything. Ora, non vi è chi non veda come, con l’attuale traiettoria tecnologica basata sul lavoro di squadra, e sull’adozione del modello oclocratico, sia la competizione cooperativa ad ottenere i migliori risultati. L’altra implicazione importante è che, laddove le persone sono indotte all’azione principalmente da motivazioni estrinseche, grande è il rischio che l’avidità – oggi la forma più sottile e devastante di quel vizio capitale che è l’avarizia – prenda possesso del management aziendale guidandone l’azione verso l’adozione di strategie fallimentari. La recente crisi economico-finanziaria, ne è la testimonianza più convincente ed eclatante (si veda Madrick, 2011).

Si vorrebbe infine chiudere con la celebre parabola di Platone. Nel Fedro si legge: “Il solco sarà diritto [e il raccolto abbondante] se i due cavalli che trainano l’aratro procedono alla stessa velocità”. Quando il mondo dell’impresa, e più in generale del lavoro, prenderà finalmente atto della saggezza racchiusa in questo antico pensiero e comprenderà che genio maschile e genio femminile devono procedere assieme, complementarizzandosi in modo concorde, allora si sarà fatto un passo importante verso quella civilizzazione dell’economia di mercato di cui da qualche tempo si va parlando con insistenza crescente.

 

Riferimenti bibliografici

  • Mill J. S. (1869), The subjection of women, Londra.
  • Madrick J. (2011), Age of greed: the triumph of finance and the decline of America, New York, Random House USA Inc.
Stefano Zamagni
Stefano Zamagni è stato professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) ed è Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, SAIS Europe. È membro del comitato scientifico di numerose riviste economiche e dal 2019 è Presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. È autore inoltre di numerose pubblicazioni - libri, volumi editati, saggi - di carattere scientifico e di contributi al dibattito culturale e scientifico.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena