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Povertà multidimensionale

Scritto da: Achille Lemmi

 

Definizione

Come noto, dal punto di vista statistico, una variabile viene definita come “latente” quando non è direttamente osservabile e la sua misurazione deve passare per altre variabili, cosiddette proxy, ad essa fortemente associate. La povertà è una variabile latente, è un costrutto teorico inosservabile, sottostante a una serie di variabili manifeste, ed è stimabile solo a partire da esse. Le variabili manifeste si possono ridurre anche a una soltanto, così come viene fatto nelle misure cosiddette tradizionali di povertà che individuano nel reddito o nella spesa per consumi la variabile manifesta in grado di spiegare e individuare il fenomeno. In tal modo, ovviamente, la povertà viene definita solo come condizione di carenza di risorse strettamente economiche, anzi monetarie. Tale approccio risulta soddisfacente nel caso in cui si accetti l’ipotesi che il reddito o, più in generale, le risorse monetarie siano in grado di interpretare e catturare tutti gli aspetti che concorrono a determinare le condizioni di disagio. A prescindere da rigorose, autorevoli e comprovate teorie che possono giustificare un simile approccio, appare evidente come la realtà sia molto più complessa e come la povertà, nello specifico, sia un fenomeno che riguarda una pluralità di dimensioni e che si manifesta in diversi aspetti del vivere, dell’interagire e del divenire delle persone nel loro contesto sociale, economico e politico.

Nella conferenza internazionale dell’International Poverty Centre (UNDP) a Brasilia (29-31 Agosto 2005) dal titolo “The Measurement of Multidimensional Poverty, Theory and Evidence”, organizzato da Jacques Silber e Nanak Kakwani, per la prima volta si affronta specificamente e su diversi piani concettuali (dalla filosofia all’antropologia, dall’economia alla sociologia e alla statistica), il problema della multidimensionalità del fenomeno della povertà, individuando, in particolare, nella disponibilità di un’informazione adeguata e affidabile sulle diverse dimensioni rilevanti, uno dei principali problemi per lo sviluppo di misure multidimensionali. Questo limite per molti anni ha determinato il predominio delle misure di povertà unidimensionali, soprattutto nell’ambito della statistica ufficiale. Peraltro, le misure di povertà che superano l’utilizzo esclusivo di indicatori monetari sono state sviluppate in contesti concettuali diversi, facendo riferimento di volta in volta all’esclusione, all’inclusione o alla coesione sociale, alla deprivazione, anche per gruppi, o alla capability poverty. Quest’ultimo approccio, che nasce dal contributo fondamentale di Amartya Sen (1993), è quello che definisce il riferimento concettuale più completo e robusto per lo sviluppo di misure di povertà multidimensionali. Esso si basa sui concetti di capacità e funzionamenti; i secondi rappresentano i risultati acquisiti dall’individuo sul piano fisico e intellettivo (ad es. salute, nutrizione, longevità, istruzione) e riflettono ciò che un individuo è in grado di essere e che ritiene di fare nella propria vita. Il funzionamento comprende due componenti: una dinamica, poiché richiama alle azioni che l’individuo compie, e una statica, laddove il concetto rimanda all’idea di uno stato di esistenza o di essere. La capacità esprime invece un’idoneità o abilità di carattere generale, ma può essere intesa anche come potenzialità e opportunità, nel senso di condizioni esterne al soggetto favorevoli alla capacità di funzionare nel modo che l’individuo ritiene più consono. In tal senso, la società dovrebbe garantire il benessere degli individui, assicurando un equo accesso alle risorse e il rispetto della dignità umana, in termini di diversità, autonomia individuale e collettiva e partecipazione responsabile. La povertà e lo stato di bisogno vengono quindi ricompresi e analizzati nell’ambito di un approccio “etico”.

Il consenso universale sul fatto che la povertà deve essere vista e misurata come fenomeno multidimensionale, è anche sancito nell’Agenda ONU per lo Sviluppo Sostenibile 2030 che individua tra gli obiettivi da raggiungere la riduzione della povertà in “tutte le sue forme e dimensioni”. In particolare, il target 1.2 degli indicatori SDG (Sustainable Development Goal) sancisce che entro il 2030 si dovrebbe almeno dimezzare la quota di uomini, donne e bambini di tutte le età che vivono in povertà, considerata in tutte le sue dimensioni e calcolata secondo le definizioni nazionali.

 

I principali approcci

Numerosi sono i contributi presenti in letteratura che fanno riferimento a misure multidimensionali della povertà. Tra gli altri, si ricordano: i) l’indice della povertà multidimensionale (Multi dimensional Poverty Index, MPI) ufficialmente pubblicato nel luglio 2010 (UNDP, 2010), sviluppato da Oxford Poverty and Human development Initiative (OPHI) in collaborazione con il Human Development Report Office dell’UNDP; ii) un indice di Povertà Model Based (IPMB), sviluppato presso il Dipartimento di Economia e Statistica dell’ Università degli Studi Federico II di Napoli; iii) l’approccio Integrated Fuzzy and Relative (IFR), sviluppato presso il Centro Toscano Interuniversitario di Ricerca e Servizi sulla Statistica Avanzata per lo Sviluppo Equo e Sostenibile (TURC-Asesd) – Camilo Dagum.

Il MPI segue la metodologia multidimensionale formulata da Alkire e Foster (2007) e rappresenta una risposta metodologica alla visione multidimensionale della povertà originariamente proposta da Anand e Sen (1997). Le dimensioni minime raccomandate per la misura sono: gli standard di vita, i servizi, la salute, il lavoro e l’ambiente. Per ogni dimensione va definito il livello che discrimina la condizione di povertà (ad esempio la povertà educativa può essere rappresentata dal non aver completato il ciclo di istruzione obbligatorio); le dimensioni sono ugualmente ponderate e a somma unitaria. Per ogni unità elementare può essere così calcolato il livello di povertà, cosiddetto punteggio individuale, sommando i pesi di tutte le dimensioni in cui l’unità risulta deprivata. A questo punto è possibile determinare un valore soglia (cut-off) per tale punteggio così da poter classificare tutte le unità in povere/non povere (se il punteggio individuale è inferiore al valore soglia, l’unità è povera). Tale classificazione dicotomica consente di calcolare il valore dell’incidenza (head count ratio, ossia la porzione di popolazione povera) e l’intensità (ottenuta come somma dei punteggi di deprivazione individuali rapportata al numero totale dei poveri). L’indice è ottenuto dal prodotto dell’incidenza per l’intensità. A partire dal contributo di Ravallion (2011), è possibile comunque individuare alcuni limiti di tale approccio. Il primo, potenzialmente comune a tutti gli indici sintetici provenienti da approcci multidimensionali, viene individuato nell’eccessiva aggregazione di dimensioni e indicatori, fino a ridurre l’indice a un’unica dimensione. Le altre criticità riguardano la scelta delle dimensioni, dei relativi indicatori, del sistema di ponderazione e la scelta arbitraria delle soglie minime. Tuttavia, nel tempo sono state messe a punto raccomandazioni a livello internazionale al fine di costruire un framework comune di riferimento (UNECE, 2017).

L’IMPB è costruito utilizzando un modello SEM-PLS (Modelli a Equazioni Strutturali con metodo PLS Path Modeling), che permette di definire un indicatore composito (povertà) come un costrutto latente e di studiare le relazioni che sussistono tra diversi concetti latenti (le dimensioni della povertà), attraverso una loro combinazione lineare (Grassia et al., 2014). Anche in questo caso è necessario individuare le dimensioni da considerare e, per ognuna di esse, è necessario individuare gli indicatori elementari e la relazione che li lega con la rispettiva variabile latente; nello specifico, ogni blocco di variabili manifeste viene scelto in modo da spiegare una sola dimensione, viene cioè verificata la “unidimensionalità” di ciascun blocco (tramite l’indice alpha di Cronbach e l’indice rho di Dillon-Goldstein). Il PLS Path Modeling permette di determinare un sistema di pesi per ciascuna variabile manifesta rispetto all’impatto che ogni dimensione ha sulla variabile povertà. L’indice è ottenuto dalla somma ponderata delle dimensioni latenti.

L’IFR ha come primo obiettivo quello di superare la tradizionale dicotomia tra povero e non povero, definendo, tramite la teoria degli insiemi sfocati (Fuzzy sets), la cosiddetta funzione di appartenenza, cioè la specificazione quantitativa del grado di appartenenza di ciascuna unità elementare all’insieme sfocato dei poveri (il valore può assumere qualsiasi valore tra 0, nessuna appartenenza, cioè totalmente non povero, e 1, completa appartenenza, totalmente povero). In altre parole, la povertà viene considerata una questiona di grado piuttosto che un attributo presente o assente (Betti et al., 2006). Una volta individuate le dimensioni e i relativi indicatori, il grado di appartenenza di ciascuna unità elementare viene calcolato per ogni singolo indicatore e l’indice sintetico è ottenuto come media ponderata delle funzioni di appartenenza individuali, con un sistema di pesi che tiene conto della diffusione nella popolazione degli indicatori di povertà considerati e della correlazione tra essi. Grazie all’utilizzo dell’approccio sfocato si elimina l’arbitrarietà connessa alla scelta dei valori soglia per i diversi indicatori considerati; inoltre, poiché viene superata la dicotomia tra poveri e non poveri, gli indici ottenuti, essendo calcolati sull’intera popolazione e non soltanto su quella classificata come povera, godono di una maggiore robustezza ed affidabilità.

Gli approcci multidimensionali non intendono sminuire l’importanza e la portata informativa degli indicatori strettamente monetari (quali reddito, consumo o ricchezza), ma si propongono come misure complementari, in grado, anche attraverso il confronto, di aggiungere informazioni su aspetti e dimensioni del disagio che le sole variabili monetarie non sono in grado di catturare. In particolare, il reddito viene sovente considerato come misura a sé stante e gli altri indicatori rappresentano misure supplementari.

Nonostante il fascino rappresentato dalla possibilità di calcolare un indicatore sintetico che agevoli i confronti spaziali, temporali e tra sottogruppi di popolazione, l’eccessiva aggregazione di dimensioni e indicatori comporta una perdita informativa e analitica estremamente rilevante, rischiando anche di vanificare l’utilizzo di misure multidimensionali. Mantenere distinte le dimensioni o considerare loro opportune aggregazioni può infatti consentire di individuare le criticità e gli aspetti più gravi o rilevanti della povertà e di porre in essere politiche di intervento più mirate ed efficaci.

 

Riferimenti bibliografici

  • Anand S. e A. Sen (1997), “Concepts of human development and poverty: a multidimensional perspective”, in Poverty and Human Development: Human Development Papers 1997, 1-20, New York, UNDP.
  • Alkire S. e J.E. Foster (2007), “Counting and multidimensional poverty measures”, OPHI Working Paper, 7.
  • Betti G., B. Cheli, A. Lemmi e V. Verma (2006), “Multidimensional and longitudinal poverty: an integrated fuzzy approach”, in A. Lemmi e G. Betti (a cura di), Fuzzy set approach to multidimensional poverty measurements, 111-137, New York, Springer.
  • Grassia M.G., N.C. Lauro, M. Marino e M. Pandolfo (2014), Indicatori Compositi da modello per lo studio della povertà e l'esclusione sociale, Espanet Conference, Torino, 18-20 Settembre.
  • Ravallion M. (2011), “On Multidimensional indices of poverty”, Journal of Economic Inequality, 9(2), 235-248.
  • Sen A. (1993), “Capability and Well-being”, in M.C. Nussbaum e A. Sen (a cura di), The quality of life, 9-29, Oxford, Oxford University press.
  • UNDP (2010), Human Development Report 2010 20th Anniversary Edition, New York, United Nations Development Programme.
  • UNECE (2017), Guide on poverty measurement, Ginevra, United nations publication issued by Economic Commission for Europe.

 

Suggerimenti di lettura

  • Aaberge R. e A. Brandolini (2014), “Multidimensional poverty and inequality”, Bank of Italy Working Papers, 976.
  • Alkire S., J. Foster, S. Seth, M.E. Santos, J.M. Roche e P. Ballon (2015), Multidimensional poverty measurement and analysis, Oxford, Oxford University Press.
  • Atkinson A.B. (1999), “The contribution of Amartya Sen to welfare economics”, Scandinavian Journal of Economics, 101 (2), 173-190.
  • Cheli B. e A. Lemmi (1995), “A’Totally’ Fuzzy and Relative Approach to the Multidimensional Analysis of Poverty”, Economic Notes, 24(1), 115-133.
  • Kakwani N. e J. Silber (2008), Quantitative Approaches to Multidimensional Poverty Measurement, New York, Springer.
  • Lemmi A., F. Berti, G. Betti, A. D’Agostino, F. Gagliardi, R. Gambacorta, A. Masi, L. Neri, N. Pannuzi, A. Regoli e S. Vitaletti (2013), “Povertà e deprivazione”, in C. Saraceno, N. Sartor e G. Sciortino (a cura di), Stranieri e disuguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati. Quarto rapporto biennale (2011-2012) sulle disuguaglianze economiche e sociali in Italia, 149-174, Bologna, Il Mulino.
  • Sen A. (1985), Commodities and Capabilities, Amsterdam, North Holland.
Achille Lemmi
Achille Lemmi è stato professore ordinario di Statistica Economica nell’Università di Siena; attualmente è honorary fellow del Centro Interuniversitario Toscano “Camilo Dagum” dove partecipa a progetti di ricerca nazionali ed internazionali sui temi della misura della disuguaglianza, della povertà, delle condizioni di vita e della sostenibilità. È autore di numerosi lavori di ricerca pubblicati su riviste internazionali e curatore di libri per autorevoli case editrici.

Progetto realizzato da

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Con il contributo di

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