Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Disabilità e abilità

Scritto da: Roberto Leombruni

 

Premessa

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, riporta nel suo preambolo la constatazione che in ogni parte del mondo “le persone con disabilità continuano a incontrare ostacoli nella loro partecipazione come membri eguali della società”.

La difficoltà a partecipare come eguali ha probabilmente la sua espressione più drammatica nel nesso che si osserva a livello mondiale tra disabilità e povertà. Nel loro primo World Report on Disability, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e la Banca Mondiale hanno stimato in circa un miliardo le persone portatrici di una qualche forma di disabilità, e di queste l’80% vive in paesi in via di sviluppo. Negli stessi paesi, circa una persona povera su cinque è anche disabile.

Ma il nesso esistente tra la disabilità e la povertà o più in generale le disuguaglianze socio-economiche non riguarda solo i paesi in via di sviluppo, e soprattutto non è una semplice correlazione statistica: la disabilità può essere infatti sia la causa che una conseguenza di condizioni socio economiche svantaggiate. La disabilità può risultare in una difficile partecipazione al mondo del lavoro, in minori opportunità di istruzione e sviluppo delle competenze, e in altre difficoltà che possono portare a uno stato di deprivazione economica. Dall’altro lato, le differenze di reddito e di stato sociale si traducono spesso in differenze nell’accesso e nella qualità delle cure mediche, nonché nella probabilità di affrontare condizioni di vita e di lavoro che possono avere conseguenze di lungo periodo sulla salute (Fremstad, 2009).

Dal punto di vista delle politiche l’aspetto da sottolineare subito è che queste relazioni non sono date e inevitabili. Il passaggio non solo scientifico ma anche culturale che supporta questa affermazione ha portato dal cosiddetto modello medico della disabilità, in cui l’attenzione verteva principalmente sulla menomazione psico-fisica, a quello sociale, oggi riflesso nella definizione stessa adottata dalla Convenzione citata dell’ONU, in cui si sottolinea che una condizione di svantaggio dipende in modo sostantivo anche dalle condizioni dell’ambiente fisico e sociale: “Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri” (Art. 1, comma 2).

In questa voce ci concentriamo su una delle maggiori sfide che riguardano il deficit di partecipazione su una base di eguaglianza, vale a dire la partecipazione dei disabili al mercato del lavoro. Per avere un dato di riferimento, in Italia il tasso di occupazione – ovvero il rapporto tra quanti lavorano e il numero di persone in età lavorativa – è di circa il 55%. Per le persone con una qualche disabilità questa percentuale scende al 44%, e nel caso di limitazioni funzionali gravi l’occupazione scende ulteriormente, sotto al 20% (Istat, 2015).

Anche in questo caso, la domanda che è doveroso porsi è se questi divari siano inevitabili, o se le politiche possano avere un ruolo nel favorire una maggiore inclusione dei disabili nel mercato del lavoro. Il tema è molto attuale, e la risposta che comincia ad affermarsi è senz’altro affermativa, a patto che si persegua uno spostamento di attenzione simile a quello avvenuto per le politiche del lavoro, da misure passive prevalentemente di ristoro e supporto economico a misure attive volte all’inserimento e al reinserimento lavorativo.

 

Dalla disabilità al lavoro: la sfida dell’attivazione

In un sistema ideale vorremmo che l’incidenza della disabilità fosse al livello più basso possibile, riducendo innanzitutto al minimo i rischi che possono portare a una minorazione, ma una situazione di “rischio zero” non è realizzabile. In un sistema virtuoso è allora altrettanto importante che quando quei rischi si realizzano vi siano cure e riabilitazione efficaci, sia dal punto di vista clinico che in funzione delle possibilità di lavoro delle persone. L’obiettivo è esattamente quello che la menomazione non si trasformi in inabilità, ovvero che quanti hanno uno svantaggio di salute a lungo termine non vedano compromessa la loro occupabilità e la loro futura ed effettiva partecipazione al mercato del lavoro.

La Figura 1, tratta da uno studio OCSE dal titolo significativo di Transforming Disability into Ability (2003), mette a confronto in diversi paesi lo status lavorativo delle persone portatrici di disabilità intercettate in qualche modo dal welfare con misure di supporto al reddito. Il dato preoccupante è che nella media dei paesi OCSE solo una persona su tre risulta occupata, mentre circa il 60% sono inattivi. In questo quadro l’Italia ha una performance decisamente sotto la media: meno di un disabile su quattro è attivo.

 

Figura 1. Tassi di occupazione, disoccupazione e inattività tra i percettori di rendite di inabilità. Paesi OCSE, anni intorno al 2000

Nota: a Inattivo significa non occupato. Fonte: OCSE (2003).

 

In realtà, una delle preoccupazioni è che sia lo stesso supporto del welfare ad avere un ruolo nei bassi livelli di partecipazione. Uno dei possibili meccanismi è legato ai casi di infortunio che comportano una lunga assenza dal lavoro, in cui l’ipotesi è che il protrarsi del rientro possa portare a un distacco/disabitudine al lavoro. È stato rilevato che la probabilità di un rientro stabile al lavoro dopo assenze da tre a sei mesi è meno del 50%, ed è sotto al 20% per le assenze sopra l’anno (Wynne e McAnaney, 2004). Il processo di esclusione si realizzerebbe attraverso un percorso di “work to welfare”, in cui l’individuo riceve nel tempo diversi tipi di supporto economico – le indennità di malattia o infortunio, in seguito indennità di disoccupazione, e poi eventuali rendite di inabilità – che in alcuni casi rischiano di “accompagnare” l’individuo fuori dal mercato del lavoro. Un altro possibile meccanismo riguarda la struttura di incentivi insita nelle indennità, per il ruolo che nelle scelte di partecipazione al lavoro viene svolto da un lato dalla generosità dei benefit, dall’altro dal timore di perdere il diritto all’indennità nel caso in cui una nuova occupazione risulti non sostenibile (Grammenos, 2003).

Ma anche al di là dell’entità di un eventuale effetto disincentivo, il punto è che le politiche, per tutelare in modo sostantivo il diritto e la partecipazione al lavoro, dovrebbero includere tra i loro obiettivi non solo il supporto e il ristoro economico, ma anche la valorizzazione delle abilità. E questa valorizzazione dovrebbe innanzitutto concentrarsi sulla possibilità di rientro nell’occupazione precedente, per evitare i percorsi di distacco citati.

Da questo punto di vista, la strategia che sembra più interessante è quella di guardare in modo integrato sia agli aspetti clinici sia a quegli aspetti occupazionali, quali adattamenti nell’equipaggiamento o negli orari di lavoro, che anche possono facilitare il rientro sul posto di lavoro. Quello che una letteratura recente sta evidenziando è che una maggiore attenzione agli aspetti occupazionali può essere cruciale, poiché la loro influenza sui tempi di recupero risulta essere addirittura maggiore di quella legata alle condizioni mediche della persona o alla tipologia di lavoro svolta (Anema et al., 2009). Se a prima vista questa conclusione può sembrare controintuitiva in realtà è coerente con l’idea che la menomazione diventa inabilità anche per fattori di contesto, e se il contesto è in grado di adattarsi gli aspetti più strettamente medico funzionali cessano di essere una barriera. Il dato interessante è che, oltre a facilitare il reintegro, gli adattamenti del posto di lavoro possono a loro volta facilitare anche il recupero medico funzionale (AFOEM, 2011). A questo proposito un caso che vale la pena di citare è quello dell’Olanda, tra i più di successo rispetto ai risultati in termini di rientro e recupero funzionale, grazie all’utilizzo ad esempio di adattamenti nell’orario di lavoro e di therapeutic work resumption, vale a dire di una ripresa lavorativa sussidiata a scopo riabilitativo. Anche il già citato report Transforming Disability into Ability, collocati i trattamenti non medici e le misure cosiddette di “intervento precoce” (early interventions) tra le strategie più efficaci contro una dipendenza di lungo periodo dal sistema di welfare (OCSE, 2003).

 

Politiche di integrazione dei lavoratori disabili

Mettere al centro dei percorsi di riabilitazione anche gli interventi occupazionali è quindi una delle opportunità per migliorare la velocità e il successo del rientro al lavoro, ma comporta un cambio anche culturale. Come è stato efficacemente sostenuto, troppo spesso con un approccio solo medico-sanitario il lavoro è visto come un problema, piuttosto che un obiettivo o come parte della soluzione (Waddell e Burton, 2004).

Più in generale, la stessa attenzione all’inserimento lavorativo va adottata per tutte le politiche che riguardano disabilità e lavoro. Seguendo una classificazione dell’OCSE esistono due tipi di approccio per gli interventi a favore dei lavoratori con disabilità, uno fondato su misure passive, di tipo risarcitorio e di sostegno al reddito, uno su misure attive, dove l’enfasi è su strumenti di integrazione e reinserimento lavorativo (OCSE, 2003).

Al momento dello studio, nel 2000, la maggioranza dei paesi presentava, come è normale attendersi, una compresenza di entrambi i tipi di misure, e si rilevava anche un progressivo riorientamento verso quelle attive. L’Italia, pur condividendo questo trend, faceva parte del gruppo di paesi in cui era più forte lo sbilanciamento verso politiche solo compensatorie. Recentemente la classificazione è stata aggiornata, e quello che emerge è un ulteriore movimento di tutti i paesi verso politiche più orientate alle misure attive, ma nonostante anche l’Italia abbia fatto ulteriori passi in avanti, lo score del nostro paese è ancora abbondantemente inferiore rispetto alla media OCSE, collocandoci appena sopra paesi quali Messico, Grecia e Corea (Figura 2).

 

Figura 2. Indicatore OCSE sulle politiche di integrazione dei lavoratori disabili. Anni 1990 e 2007

Fonte: OCSE, 2010.

 

Su questa valutazione concorda anche un recente rapporto della Commissione Europea incentrato sulla diffusione tra i paesi membri di misure di supported employment, che vengono considerate tra le migliori pratiche in tema di attivazione, rispetto ad esempio al lavoro protetto o al lavoro sussidiato (Commissione Europea, 2012). Il dato quasi laconico riportato per l’Italia è che non sono disponibili programmi nazionali di supporto all’occupazione dei disabili. Le eccezioni a questo giudizio sono da rintracciare piuttosto in iniziative locali, ad esempio di associazioni o cooperative sociali, o in alcuni esempi di buone prassi da parte dei Centri per l’Impiego, o ancora nelle attività delle imprese sociali di inserimento lavorativo. Iniziative, però, che si allontanano dallo schema del supported employment, il cui obiettivo dovrebbe essere quello di portare la persona a offrirsi sul mercato “aperto”, con un approccio volto alla valorizzazione delle proprie competenze anziché centrato su inabilità a fronte delle quali lo Stato offre una compensazione o un incentivo. Questo è particolarmente visibile in quello che per lungo tempo è stato l’unico vero programma nazionale per il reinserimento, derivante dalle “quote” previste dalla Legge n. 68/1999. Solo molto recentemente, con le nuove competenze conferite all’INAIL con la Legge di stabilità per il 2015 e le successive circolari attuative nel 2016 e 2017, l’Istituto di previdenza ha inaugurato le prime politiche di respiro nazionale basate su adeguamento del posto di lavoro e riqualificazione dei lavoratori.

 

Conclusioni

Le condizioni di salute sono una delle dimensioni principali di disuguaglianza nelle società contemporanee, che nel caso della disabilità – data la natura a lungo termine dello svantaggio che comporta – possono apparire un dato su cui gli spazi di intervento sono limitati. Un approccio nuovo al tema, portato al centro dell’agenda politica in particolare dalla Convenzione delle Nazioni Unite citata in apertura, sottolinea che eliminare le barriere e tutti i fattori di contesto che giocano un ruolo nella disabilità riguarda il diritto fondamentale delle persone a un inserimento da eguali nella società. Le politiche possono svolgere un ruolo cruciale in questo, in particolare rispetto a un tema di grande rilevanza e attualità quale quello del diritto al lavoro, tanto più se saranno in grado di potenziare le misure volte all’attivazione e al reinserimento lavorativo, spostando l’accento dalle inabilità alla valorizzazione delle capacità della persona.

 

Riferimenti bibliografici

  • AFOEM (2011), Australian and New Zealand Consensus Statement on the Health Benefits of Work, Sydney, Australasian Faculty of Occupational & Environmental Medicine.
  • Anema J.R., A.J. Schellart, J.D. Cassidy, P. Loisel, T.J. Veerman e A.J. van der Beek (2009), “Can cross country differences in return-to-work after chronic occupational back pain be explained? An exploratory analysis on disability policies in a six country cohort study”, Journal of Occupational Rehabilitation, 19(4), 419-426.
  • Commissione Europea (2012), Supported Employment for people with disabilities in the EU and EFTA-EEA, Lussemburgo, Publications Office of the European Union.
  • Fremstad S. (2009), “Half in Ten: Why Taking Disability into Account is Essential to Reducing Income Poverty and Expanding Economic Inclusion”, CEPR Reports and Issue Briefs, 2009-30.
  • Grammenos S. (2003), Illness, disability and social inclusion, Lussemburgo, Eurofound, Office for Official Publications of the European Communities.
  • Istat (2015), Inclusione sociale delle persone con limitazioni funzionali, invalidità o cronicità gravi, Roma, Istat – Comunicato Stampa, 21 Luglio 2015.
  • OCSE (2003), Transforming disability into ability. Policies to promote work and income security for disabled people, Parigi, OECD Publishing.
  • OCSE (2010), “The Direction of Recent Disability Policy Reforms”, in Sickness, Disability and Work: Breaking the Barriers: A Synthesis of Findings across OECD Countries, Parigi, OECD Publishing.
  • Waddell G. e A.K. Burton (2004), Concepts of rehabilitation for the management of common health problems, Norwich, The Stationery Office.
  • Wynne R. e D. McAnaney (2004), Employment and disability: Back to work strategies, Lussemburgo, Eurofound, Office for Official Publications of the European Communities.

 

Suggerimenti di lettura

  • WHO e WB (2011), World Report on Disability, Ginevra, World Health Organization e World Bank.
Roberto Leombruni
Roberto Leombruni è Professore Associato in Statistica Economica presso l’Università di Torino e Ricercatore del Laboratorio Riccardo Revelli. Insegna Econometria e Valutazione delle Politiche in vari corsi di laurea e Master, mentre i suoi temi di ricerca riguardano mercato del lavoro, welfare e pensioni; le relazioni tra lavoro e salute; l’uso di Big Data di fonte amministrativa a scopi di ricerca e di supporto alle politiche.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena