Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Disabilità e infortuni sul lavoro

Scritto da: Roberto Leombruni

 

Premessa

Il lavoro è uno dei contesti principali nei quali si determina una condizione di disabilità, a seguito di infortuni sul lavoro e malattie professionali. Quale sia empiricamente la “quota” di disabilità attribuibile al lavoro non è un tema molto indagato, ma per avere un ordine di grandezza si consideri che nelle stime dell’Istat nel 2013 le persone con disabilità tra i 15 e i 64 anni in Italia erano circa 550.000. La “Banca dati disabili” dell’Inail, per la stessa fascia di età, riporta che nel 2017 i percettori di una rendita Inail, per i quali è stata quindi certificata l’origine lavorativa della disabilità, erano 215.000. Pur non riferendosi agli stessi anni e non provenendo da una base informativa integrata come metodi e definizioni, si può stimare quindi che per tre/quattro disabili su dieci la menomazione ha avuto origine sul lavoro. Questa stima, seppur molto approssimata, è coerente con quanto riportano Reville e Schoeni (2008) per gli Stati Uniti, per i quali il 36,3% delle persone con limitazioni funzionali attribuiscono questa inabilità al lavoro.

Fortunatamente negli ultimi decenni i trend che si osservano per l’Italia sono positivi, e parlano di un progressivo calo del rischio di infortuni sul lavoro, grazie a progressi nella normativa, nelle attività di monitoraggio e nelle tecniche di prevenzione. Se è lecito sperare che in futuro queste cifre possano calare, dal punto di vista delle politiche non si può però dare per scontato che questi trend proseguano immutati, anzi. Il tema degli infortuni sul lavoro sta in realtà tornando di grande attualità per via dei profondi mutamenti che sta vivendo il mercato del lavoro, mutamenti cui la politica non ha ancora dato una risposta rispetto a tutte le conseguenze che possono avere riguardo alle relazioni tra lavoro e disabilità. È quella che in estrema sintesi potremmo definire la sfida della flessibilità, che richiederebbe un aggiornamento delle norme che riguardano sia la prevenzione che l’assicurazione contro i rischi di infortunio, per tenere conto dalle nuove forme, più flessibili, di organizzazione del lavoro e della produzione.

 

Dal lavoro alla disabilità: la sfida della flessibilità

Le leggi sulla salute e la sicurezza sul lavoro nascono nella seconda metà dell’Ottocento nelle fabbriche, a favore di una categoria, quella dei lavoratori manuali subordinati, considerata più vulnerabile e bisognosa di tutela. Anche in Italia, la Legge n. 80/1898 nasce per “proteggere la vita e la integrità personale degli operai”, e i Testi Unici sulla sicurezza del lavoro del 1964 e del 2008 hanno sostanzialmente confermato questo impianto normativo, che ancora oggi ha una forte caratterizzazione sul lavoro manuale e sulla presenza di un rapporto di lavoro dipendente. È innanzitutto questo impianto ad essere messo in discussione dalle nuove forme di lavoro e di organizzazione produttiva.

In realtà la platea di lavoratori cui la normativa si riferisce è stata via via estesa, prima al lavoro artigiano, e in anni più recenti al lavoro parasubordinato sino alle cosiddette “false” partite Iva, in cui il lavoratore formalmente autonomo di fatto ha un solo committente. Questa sorta di inseguimento normativo delle nuove forme di lavoro ha però dei limiti, il primo dei quali è quello che se l’aggiornamento non è tempestivo c’è il rischio che rimangano a lungo dei vuoti di copertura. Un caso paradigmatico è quello del lavoro parasubordinato, diffusosi già alla fine degli anni Ottanta, che però ha visto riconosciuta l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni con un ritardo di più di dieci anni, con il Decreto legislativo n. 38/2000. Oggi invece aspettano ancora un inquadramento soddisfacente le Partite Iva non “false” e i “lavoretti” della cosiddetta GIG-Economy, che configurano forme di lavoro flessibile ancora ampiamente fuori dall’assicurazione obbligatoria.

Dal punto di vista dell’equità, stride il diverso trattamento degli eguali tra un fattorino dipendente di un’azienda di trasporti rispetto a un ragazzo che fa consegne per un servizio on line di food delivery con un contratto di prestazione occasionale, nel momento in cui entrambi sono esposti agli stessi rischi di incidente stradale, ma con un diverso monitoraggio di come quei rischi sono gestiti, e soprattutto, se quei rischi si concretizzano in un incidente, con una diversa offerta di servizi di cura e riabilitazione e un minore o inesistente ristoro delle conseguenze economiche per il lavoratore freelance.

Il punto in realtà è più generale, e va al di là degli eventuali abusi quali “finte” collaborazioni o “finte” partite IVA, e riguarda il fatto che nelle economie contemporanee sono ormai normali organizzazioni della produzione in cui il prestatore d’opera ha un legame commerciale, e non di subordinazione, con il committente – i cosiddetti “non employee workers” – e questo colloca molti lavoratori al margine delle tutele garantite dalla normativa, con il rischio quasi paradossale di far tornare questi lavoratori a prima dell’introduzione dei moderni sistemi di assicurazione obbligatoria, in cui il lavoratore deve far conto, se è lungimirante, sull’assicurazione privata, oppure su una qualche misura di welfare aziendale se ad essere lungimirante è l’impresa.

Dal punto di vista della politica, più che un “inseguimento” delle nuove forme di lavoro, un filone recente di studi auspica di incentrare la normativa anziché sul concetto di employment su quello di work relationship (Johnstone et al., 2012; Harpur e James, 2014); ovvero di considerare, come causale che garantisce le tutele, non più o non tanto il contratto di lavoro bensì il concetto più ampio di relazione di lavoro. Da questo punto di vista, è interessante notare che mentre la principale convenzione dell’ILO del 1981 sulla Occupational Health and Safety definiva ancora i lavoratori come “employed persons”, le Linee Guida dell’OCSE sulla responsabilità sociale delle imprese multinazionali fanno riferimento a una definizione più ampia, secondo la quale le imprese dovrebbero avere una sensibilità etica nei confronti di tutti i lavoratori sui quali le loro operazioni hanno un qualche impatto. Un esempio interessante di applicazione di questi principi in una normativa nazionale è il Work Health and Safety Act del 2011 in Australia (Harpur e James, 2014).

 

I nuovi rischi della flessibilità

Sinora abbiamo parlato principalmente degli aspetti assicurativi, importanti per garantire a chiunque derivi una menomazione a causa del lavoro sia un adeguato supporto economico che servizi integrativi di cura e riabilitazione. Sono da sottolineare però anche i nuovi rischi legati alla flessibilità.

Alcuni sono strettamente legati alla tendenza già citata da parte delle imprese di acquistare servizi da non employee workers o più in generale da fornitori esterni, anziché organizzare direttamente la produzione. C’è ormai una vasta letteratura, cui rinviamo, che analizza la relazione tra outsourcing, subcontracting e infortuni sul lavoro. Ricordiamo solo una sintesi efficace della questione, per la quali le aziende dovrebbero “esternalizzare la produzione, non la responsabilità” (Nieuwenkamp, 2015): tra le conseguenze, o addirittura i motivi, della esternalizzazione non dovrebbe mai esserci un deterioramento delle condizioni di sicurezza in cui operano i lavoratori.

La letteratura si è anche interrogata sul fatto che la natura temporanea dei contratti di lavoro comporti un maggior rischio di infortuni. Su questo punto non c’è ancora un consenso, in quanto esistono sia studi che mostrano una relazione positiva che negativa o assente (Koranyi et al., 2018). In chiave dinamica, però, c’è un importante meccanismo che collega rischio di infortuni e flessibilità, che passa attraverso la minore accumulazione di esperienza lavorativa.

Il ruolo protettivo dell’esperienza è intuitivo – è il cosiddetto learning by doing applicato alla conoscenza dei rischi collegati al luogo di lavoro e alla mansione – ed è noto da tempo: è di quasi un secolo fa uno studio sugli operai di una fabbrica americana che mostrava come i neo-assunti con meno di un mese di esperienza fronteggiavano un rischio di infortuni di 12 volte più alto del rischio medio nella stessa impresa; e tutti gli studi successivi sul tema hanno confermato questa tendenza, anche se ovviamente oggi si registrano eccessi di rischio minori (Breslin e Smith, 2009). Per l’Italia, si è stimato che per i lavoratori under 30, a parità di altre condizioni, il rischio di infortuni nei primi sei mesi di lavoro è del 41% più alto rispetto a persone assunte già da due anni o più. Ma anche tra i lavoratori sopra i 40 anni cambiare lavoro – pur reimpiegandosi nello stesso settore e mansione in cui hanno già accumulato esperienza – implica avere rischi di infortunio di circa il 20% più alti nei primi sei mesi di lavoro (Bena et al., 2013).

Questo vuol dire che carriere flessibili, sia che uno stia entrando nel mercato del lavoro sia che stia cercando di ricollocarsi, si traducono in una situazione in cui gli individui si ritrovano continuamente nella fase a più alto rischio di infortunio. Semplificando un po’, cambiando continuamente lavoro non c’è il tempo sufficiente per imparare i rischi più specifici che riguardano una certa mansione o luogo di lavoro.

Dal punto di vista delle politiche, se quello che si impara facendo ha un ruolo protettivo minore rispetto ai tempi in cui le relazioni di lavoro erano più stabili, è fondamentale dare una maggiore importanza a istruzione e formazione, cioè all’imparare studiando, che anche a livello internazionale si ritiene svolgano un ruolo non sufficiente (Smith e Mustard, 2007; Sreenivasan, 2002). Inoltre, nelle stesse procedure di risk assessments con cui si valutano di rischi di infortunio in un dato contesto aziendale, che hanno tra i loro scopi quello di identificare gruppi di lavoratori particolarmente a rischio, la categoria “nuova” che andrebbe considerata con maggiore attenzione è quella dei lavoratori appena entrati nel contesto aziendale, siano essi neoassunti con contratti stabili, piuttosto che con contratti temporanei, o ancora lavoratori in outsourcing.

 

Conclusioni

Da molti punti di vista, la normativa italiana sulla prevenzione e sull’assicurazione contro i rischi di infortunio ha un grande livello di sviluppo e di maturità, che hanno garantito significativi progressi per limitare sempre più il doloroso contributo che il mondo del lavoro dà al tema della disabilità. Ma nonostante questi progressi, i mutamenti delle modalità di organizzazione della produzione e del lavoro richiedono da parte della politica uno sforzo per aggiornare ulteriormente i principi e le misure messi in campo, innanzitutto per limitare i nuovi rischi che si stanno determinando per la salute dei lavoratori. Inoltre, è necessario che per tutte le modalità di lavoro sia prevista una forma di assicurazione, che sia pubblica o privata ma obbligatoria: dal punto di vista dell’equità, è difficile accettare che a seguito di un infortunio sul lavoro a qualcuno siano offerti un supporto economico e di cure integrative e a qualcuno no, solo per via delle diverse modalità contrattuali con le quali è stata regolata la prestazione di lavoro.

 

Riferimenti bibliografici

  • Bena A., M. Giraudo, R. Leombruni e G. Costa (2013), “Job tenure and work injuries: a multivariate analysis of the relation with previous experience and differences by age”, BMC Public Health, 13(1), 869.
  • Breslin F.C. e P. Smith (2006), “Trial by fire: a multivariate examination of the relation between job tenure and work injuries”, Occupational and Environmental Medicine, 63, 27-32.
  • Harpur P.D. e P. James (2014), “The Shift in Regulatory Focus from Employment to Work Relationships: Critiquing Reforms to Australian and UK Occupational Safety and Health Laws”, University of Queensland TC Beirne School of Law Research Paper, 14-13.
  • Johnstone R., S. McCrystal, I. Nossar, M. Quinlan, M. Rawling e J. Riley (2012), Beyond Employment: The Legal Regulation Of Work Relationships, Alexandria (Australia), The Federation Press.
  • Koranyi I., J. Jonsson, T. Rönnblad, L. Stockfelt e T. Bodin (2018), “Precarious employment and occupational accidents and injuries – a systematic review”, Scandinavian Journal of Work, Environment & Health, 44(4), 341-350.
  • Nieuwenkamp R. (2015), Promoting inclusive business through responsible business. Part 1 – Outsource production not responsibility, OECD Insights – 9 Settembre 2019.
  • Reville R.T. e R.F. Schoeni (2008), “The Fraction of Disability Caused at Work”, in R.W Eberts e R.A. Hobbie (a cura di), Older and Out of Work: Jobs and Social Insurance for a Changing Economy, 85-100, Kalamazoo (MI), W.E. Upjohn Institute for Employment Research.
  • Smith P.M. e C.A. Mustard (2007), “How many employees receive safety training during their first year of a new job?”, Injury Prevention, 13(1), 37–41.
  • Sreenivasan B. (2002), Young people’s attitudes to health and safety at work, Sheffield, Health & Safety Laboratory.

 

Suggerimenti di lettura

  • Giraudo M., A. Bena, R. Leombruni e G. Costa (2016), “Occupational injuries in times of labour market flexibility: the different stories of employment-secure and precarious workers”, BMC Public Health, 13, 16-150.
Roberto Leombruni
Roberto Leombruni è Professore Associato in Statistica Economica presso l’Università di Torino e Ricercatore del Laboratorio Riccardo Revelli. Insegna Econometria e Valutazione delle Politiche in vari corsi di laurea e Master, mentre i suoi temi di ricerca riguardano mercato del lavoro, welfare e pensioni; le relazioni tra lavoro e salute; l’uso di Big Data di fonte amministrativa a scopi di ricerca e di supporto alle politiche.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena