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Economia Informale

Scritto da: Valeria Cirillo

 

“-Come definirebbe il settore informale? - Guardi, quando lei va allo zoo, subito riconosce com’è una giraffa. Non dice che ha il collo e le zampe lunghe, che è a macchie o è alta. Allo stesso modo, è assodato che quando uno va da qualche parte, riconosce ciò che è informale.”

Hans Singer

 

Origine del concetto

Il termine “economia informale” inizia a diffondersi negli anni Settanta in riferimento ai Paesi in via di sviluppo per indicare esperienze di produzione e vendita che si collocano al di fuori del mercato e delle sue regole. Il concetto di informalità, nel senso comunemente accettato da quel momento in poi, affonda le sue radici nella ricerca dell’antropologo Keith Hart del 1973 pubblicato sul Journal of Modern African Studies. Hart studia un gruppo “Frafras” del Ghana settentrionale, spostatosi nelle aree urbane del sud. Seguendone i movimenti, l’autore ha la possibilità di concentrarsi sulle attività economiche marginali svolte nei sobborghi di Accra, attività scarsamente remunerate e poco qualificate, che lo studioso definirà come “informali”. Hart giunge alla conclusione che i modelli di guadagno e spesa risultano notevolmente più complessi di quelli notoriamente considerati dalla teoria economica, poiché occorre considerare gli introiti extra, non contabilizzati ufficialmente, i quali tuttavia contribuiscono al sostegno della domanda aggregata. Nello studio di Hart occorre considerare un ulteriore aspetto che sarà ripreso nei lavori successivi riguardanti l’economia informale, si tratta del distinguo fra attività legali e illegali.

Anche l’ILO in occasione del lancio del World Employment Programme già nel 1967 sottolineava la centralità del lavoro nei piani di sviluppo nazionali, in un’epoca in cui i principali teorici dello sviluppo guardavano alla formazione del capitale come elemento trainante la crescita. La creazione di occupazione diviene una componente centrale delle politiche di sviluppo e non più un effetto residuale delle stesse. Nell’ambito di tale programma si colloca la missione in Kenya del 1972, la quale ha ufficialmente battezzato il concetto di informal sector. In particolare, è all’interno del report scaturito da quella missione, “Employment, Incomes and Equity: a strategy for increasing productive employment in Kenya”, che compaiono le parole di “settore informale”, le quali costituiscono il concetto chiave in riferimento al mercato del lavoro del Kenya. Si riconosce l’esistenza di un cospicuo gruppo di persone le cui attività lavorative non sono registrate nella contabilità nazionale. Secondo l’ILO, il principale obiettivo del settore informale consiste nel soddisfacimento delle esigenze primarie legate alla sussistenza di determinate fasce di popolazione. Si tratta di attività economiche in grado di generare reddito, nonostante la scala ridotta della loro dimensione, le tecnologie semplici, lo scarso capitale iniziale e la mancanza di relazioni con il settore formale. L’idea è che dinanzi ad un mercato del lavoro saturo, l’informalità offre al singolo opportunità di lavoro e consente una qualche forma di distribuzione della ricchezza. L’informalità diviene sinonimo di “povertà” ed indica una modalità urbana di lavoro caratterizzata da esiguità di barriere all’ingresso, proprietà familiare delle imprese, ridotta scala di lavoro, impiego di tecnologie obsolete e labour-intensive. Anche nei successivi documenti dell’ILO, della Banca Mondiale e del PREALC (Programa Regional del Empleo para America Latina y el Caribe), l’occupazione all’interno del settore informale verrà definita nei termini di “sottoccupazione”. La visione che emerge all’interno di questi documenti ufficiali è quella di un’economia informale tradizionale, poco moderna, poco sviluppata.

 

Il dibattito sociologico sull’economia informale

Il termine economia informale rappresenta una categoria concettuale ampia in quanto include realtà eterogenee, dall’economia nascosta, ai mercati illegali, al lavoro nero, sino all’economia comunitaria e domestica, il cosiddetto “fuori mercato” e il do it yourself. Secondo Bagnasco (1981) tutti questi fenomeni hanno in comune un elemento, ossia quello di sottrarsi per uno o più fattori ai caratteri distintivi propri di quei processi di produzione e scambio di beni e servizi regolati dal mercato e realizzati tipicamente da imprese industriali e commerciali orientate al profitto, che agiscono in osservanza delle regole del diritto commerciale, fiscale e del lavoro, e che pertanto rientrano nell’economia formale. È bene sottolineare la difficoltà di adoperare uno stesso concetto di “economia informale” per PS e PVS, poiché l’entità e la genesi del fenomeno hanno forme diverse. In ambito sociologico, appaiono di notevole interesse alcuni schemi proposti al fine di concettualizzare l’informalità. Il primo di essi è quello redatto da Sachs, il quale utilizza la dizione di “economia nascosta” con riferimento a tutto ciò che non viene registrato dalla contabilità nazionale, sia per motivi di ordine concettuale (come nel caso della produzione domestica), sia per mancanza di dati (mercati paralleli, illegali ecc.). Nello schema di Sachs compaiono due macro-categorie: l’ambito del mercato/fuori-mercato, e quello del lavoro/beni e servizi (Figura 1).

 

Figura 1. Schema di Sachs

 

Il secondo schema ugualmente importante in ambito sociologico è quello elaborato da Gershuny e Pahl (1979). Gli autori evidenziano le relazioni esistenti fra le tre tipologie rientranti nella categoria dell’informale (Figura 2). Si tratta dell’economia domestica, household economy, ovvero la produzione di beni e servizi in ambito domestico e destinati ad una fruizione ugualmente domestica, dell’economia nascosta, underground, hidden, black economy, cioè la produzione destinata al mercato ma non dichiarata fiscalmente, ed infine l’economia comunitaria, communal economy, produzione di un bene o servizio destinato alla comunità attraverso forme di scambio alternative a quelle previste dal mercato.

 

Figura 2. Schema Gershuny e Pahl

 

Lo schema proposto da Gershuny e Pahl mette in evidenza la presenza di sei flussi di relazioni esistenti fra i tre settori economici, ognuno dei quali corrisponderebbe a determinate condizioni di produzione di beni e servizi in relazione ad un preciso momento storico. Lo schema di Gershuny e Pahl ha il merito di evidenziare la continuità esistente fra i vari ambiti economici, sottolineandone le possibili interrelazioni.

Un’ulteriore classificazione proposta da Haller e Portes (2004) in ambito sociologico è quella di tipo funzionale, la quale prende in considerazione quattro sostanziali obiettivi propri delle attività informali. Il primo di essi è quello di garantire la sussistenza di una persona e/o nucleo familiare attraverso la produzione diretta o l’allocazione di beni e servizi sul mercato. Il secondo è quello di incrementare la flessibilità nella gestione, al fine di ridurre il costo del lavoro a carico delle imprese, attraverso il subappalto. Il terzo caso di economia informale è quello delle piccole e medie imprese, le quali adottano un modello di informalità al fine di consentire un incremento di capitale monetario e sociale.

L’analisi sociologica ha messo in evidenza: (i) la fluidità di relazioni esistenti fra l’ambito dell’economia formale e quello informale, superando una visione dicotomica - i settori del formale/informale possono essere visti come le estremità di un continuum e il passaggio da un’estremità all’altra avviene secondo un processo graduale di formalizzazione/informalizzazione; (ii) la dinamicità del rapporto formale/informale. Castells e Portes (1989) descrivono l’economia informale non come una condizione individuale, bensì come un processo generatore di ricchezza caratterizzato da un elemento fondamentale, ossia quello della mancanza di regolazione all’interno di un contesto in cui situazioni similari appaiono sottoposte a norme codificate. L’esistenza di un settore informale è correlata alla presenza di un quadro normativo-istituzionale che consente di discernere ciò che è formale da ciò che non lo è. Paradossalmente, in un’ideale economia di mercato, caratterizzata da un’assenza di regolazione, il distinguo formale/informale viene sostanzialmente meno, poiché tutte le attività si configurerebbero come formali. Tale questione è spesso nota come “paradosso del controllo dello Stato”: più lo Stato interviene attraverso forme di regolazione e controllo al fine di limitare l’espandersi delle attività illegali e tanto più si rafforzano quelle stesse condizioni che consentono la loro genesi (Lomnitz, 1988). Portes (1984), nella sua analisi sul potere regolatore dello Stato in termini di effetti sullo sviluppo dell’economia informale, considera anche un ulteriore elemento. Si tratta della tipologia di reazione della società civile, che può essere solidale, cioè tendente all’organizzazione in rete, o piuttosto “individualista”, dinanzi alla diffusione dell’informalità. Per cui, un maggior livello di regolazione da parte dello Stato dell’attività economica non contribuisce necessariamente a ridurre l’entità dell’economia informale o, al contrario a generare opportunità per violare le norme. Questo accade in modo diverso a seconda della qualità del controllo esercitato dallo Stato e del potere di risposta da parte della società civile. Portes sostiene che il settore informale nei PVS svolge in alcuni casi un ruolo positivo, ovvero risulta funzionale allo Stato, che paradossalmente sarebbe l’istituzione incaricata alla sua eliminazione. In quei contesti in cui l’economia formale non è in grado di assicurare una situazione di pieno impiego, l’impresa informale svolge un doppio ruolo: in primo luogo, impiega ed assicura un ingresso minimo ad una parte della popolazione, che altrimenti risulterebbe priva di mezzi di sussistenza, ed in secondo luogo, i beni e servizi forniti dal settore informale consentono una riduzione dei costi di produzione delle imprese formali, garantendone una certa competitività. In sostanza, l’idea è che l’economia informale contribuisce ad assicurare una certa stabilità politica ed economica, tale per cui lo Stato, in determinate situazioni, è portato a tollerare le attività informali, nonostante esse contravvengano agli obblighi di natura fiscale.

 

Verso una quantificazione dell’informalità

Nel 1993 l’ILO fissa alcuni macro-criteri al fine di porre ordine e facilitare l’acquisizione di dati da parte degli uffici statistici in merito a questo eterogeneo settore. Nella definizione dell’ILO (1993), il settore informale è caratterizzato da un insieme di unità produttive di beni e servizi con un obiettivo primario, ossia quello di generare occupazione ed introiti per le persone occupate al suo interno. Queste unità produttive operano con un basso livello di organizzazione, con una scarsa, o a volte nulla, divisione fra lavoro e capitale, e a bassa scala di produzione. Le relazioni lavorative sono improntate alla casualità, influenzate molte volte da legami di parentela o amicizia, raramente si tratta di rapporti lavorativi formalmente registrati con garanzie e tutele giuridiche. Le unità produttive presentano i caratteri di imprese familiari, i cui beni patrimoniali non sono di pertinenza dell’impresa ma dei proprietari, i quali procurano il capitale iniziale a proprio rischio, non vi è divisione fra il capitale dell’impresa e quello personale dei titolari, per cui parte dei beni rientranti nel capitale fisso dell’impresa sono adoperati indistintamente sia per l’attività economica dell’impresa stessa che per scopi privati. La definizione fornita dal report dell’ILO distingue l’economia informale dal sommerso sulla base di un elemento: l’assenza di deliberata volontà nell’evadere le norme fiscali, tributarie e del lavoro. Molte volte ciò accade, ma per motivi di necessità. L’ILO giunge ad una definizione operativa del settore informale, definendolo nei termini di un gruppo di unità di produzione che fa parte del settore interno (household sector) come household enterprises (unità che producono beni e servizi, ma che non risultano formalmente costituite come entità legali separate dall’ambito familiare o dai suoi membri che ne sono i titolari) o come unincorporated enterprises a gestione familiare (imprese non registrate come tali, gestite dai membri della famiglia o da altri senza che ciò sia legalmente registrato). All’interno delle household enterprises rientrano due sottocategorie:

  1. Imprese informali di proprietà individuale che impiegano, in qualità di lavoratori, familiari e dipendenti su base occasionale (si tratta per lo più di aziende di proprietà individuale o comunque imprese non formalmente registrate);
  2. Imprese che impiegano uno o più dipendenti su base continuativa e che rispondono ad alcuni criteri:
    • Dimensione dell’impresa inferiore rispetto ad un parametro minimo di occupati;
    • Assenza di legale atto di registrazione dell’impresa o dei suoi occupati.

Per cui, in termini operativi i criteri adoperati nell’individuazione del settore informale sono diversi: status legale, stato della contabilità, numero di occupati e registrazione dell’attività.

In sostanza emergono due segmenti principali del settore informale:

  1. family enterprises con un proprio conto, ma senza lavoratori fissi di tipo dipendente;
  2. micro-enterprises che impiegano informalmente manodopera anche per lungo periodo.

L’adozione di questa definizione del settore informale a livello internazionale ha permesso lo svolgimento di indagini in diversi contesti nazionali, consentendo confronti transnazionali di notevole interesse. Grazie all’intervento dell’ILO del 1993 si è tentato di pervenire ad una definizione univoca tale da facilitare le operazioni di calcolo. In termini statistici occorre considerare che la sottostima del settore informale all’interno di un circuito economico ha valore diverso a seconda dei rapporti esistenti fra il settore informale stesso e quello formale. In alcuni casi, quale quello rappresentato dall’economia domestica, il sistema informale risulta completamente scisso da quello formale, poiché sia l’impiego che la produzione sfuggono del tutto all’osservazione. Tuttavia, nella maggior parte dei casi i circuiti economici del formale e dell’informale tendono a sovrapporsi ed intrecciarsi facilitando la stima dell’economia informale.

 

Riferimenti bibliografici

  • Bagnasco A. (1981), "La questione dell'economia informale", Stato e mercato, 173-196.
  • Castells M. e Portes A. (1989), “World Underneath: The Origins, Dynamics, and Effects of the Informal Economy”, in A. Portes, M. Castells e L.A. Benton (a cura di), The Informal Economy: Studies in Advanced and Less Developed Countries, 11–37, Baltimore, Johns Hopkins University Press.
  • Gershuny J. I., R. E. Pahl (1979), “Work outside employment: Some preliminary speculations”, Higher Education Quarterly, 1979, 34(1), 120-135.
  • Hart K. (1973), “Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana”, The Journal of Modern African Studies, 11(1), 61-89.
  • International Labour Office (1972), Employment, incomes and equality: a strategy for increasing productive employment in Kenya, Internat, Labour Office, 1972.
  • International Labour Office (1993), Statistics of employment in the informal sector, Report for the XVth International Conference of Labour Statisticians, Geneva, 19-28 January 1993.
  • Lomnitz L. A. (1988), “Informal exchange networks in formal systems: a theoretical model”, American anthropologist, 90(1), 42-55.
  • Portes A. (1984), “El sector informal: definición, controversias, relaciones con el desarrollo nacional”, in A. Portes (a cura di), Ciudades y sistemas urbanos: economía informal y desorden espacial, CLACSO, Buenos Aires, 95-111.
  • Portes A., W. Haller (2004), “La economía informal”, Serie Políticas Sociales, CEPAL, División de Desarrollo Social, Santiago de Chile.

 

Suggerimenti di lettura

  • Bagnasco A. (1986), L’altra metà dell’economia. La ricerca internazionale sull’economia informale, Napoli, Liguori Editore.
  • Bangasser P. E. (2000), “The ILO and the Informal Sector: an institutional history”, Employment Paper, 9, International Labour Organization.
  • Carboni C. (1990), Lavoro informale ed economia diffusa: costanti e trasformazioni recenti, Roma, Edizioni Lavoro.
  • Cimoli M., A. Primi, M. Pugno (2006), “Un modelo de bajo crecimiento: la informalidad como restricción estructural”, Revista de la CEPAL 88, 92-106.
  • Deaglio M. (1985), Economia sommersa e analisi economica, Torino, Giappichelli Editore.
  • Portes A., M. Castelles, L. A. Benton (1989), The Informal Economy. Studies in Advanced and Less Developed Countries, London, The Johns Hopkins University Press.
  • Schneider F., Enste D. H. (2000), “Shadow Economies: Size, Causes and Consequences”, Journal of Economic Literature, 38(1), 77-114.
Valeria Cirillo
Valeria Cirillo è Professore Associato di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari. Ha ricoperto precedentemente l’incarico di Ricercatore presso l'Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP). Dal 2014 al 2017 è stata ricercatrice post-doc presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e, dal 2013 al 2014 assegnista di ricerca post-doc pressoil Dipartimento di Scienze Statistiche della Sapienza. È membro del Laboratorio Minerva su Diversità e Disuguaglianze di genere, Sapienza Università di Roma.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena