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Senza fissa dimora

Scritto da: Eleonora Costantini

 

Ce n'est pas une définition

Le ricadute sugli individui della povertà estrema e della grave deprivazione pongono, innanzi tutto, un evidente problema definitorio se l’etichetta utilizzata per ricomprenderle è declinata come negazione di una condizione. Ancora di più se questa stessa condizione non è riferita alla sfera dell’essere quanto a quella dell’avere, con la conseguenza che si finisce per definire una categoria di persone non tanto in base a chi sono o a chi non sono ma a ciò che non hanno o non hanno più.

Stando alla letteralità della locuzione, infatti, l’elemento aggregante dell’intera categoria è l’assenza di una condizione abitativa stabile, o meglio, secondo le formulazioni più recenti adottate a livello europeo (classificazione ETHOS), quella di Senza Fissa Dimora (SFD) è una condizione determinata dall’intersezione tra la disponibilità o meno di un alloggio e la qualità dell’alloggio posseduto. Allo sforzo classificatorio va riconosciuto l’innegabile merito di aver nominato il fenomeno, con una duplice finalità: “di dare una conoscenza chiara dei percorsi e dei processi che conducono all’esclusione abitativa e di offrire una definizione concettuale misurabile, comune ai vari paesi europei, che può essere aggiornata annualmente per tenere conto delle evoluzioni del fenomeno” (Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia, 2015). Secondo tale classificazione, dunque, la categoria dei SFD ricomprende quattro macro categorie concettuali - senza tetto, senza casa, con sistemazione insicura, con sistemazione inadeguata - dettagliate successivamente con dimensioni di disagio economico e sociale individuale. In questo modo, la definizione di una categoria – che si immagina oggettiva e generalizzabile – ha reso visibile una parte di società che il senso comune considera popolata di invisibili, la cui sfacciata presenza visibile sollecita, tuttavia, interventi che attengono tanto alla sfera della tutela (Piani comunali Emergenza Freddo, Unità di strada, ecc..) quanto a quella della sicurezza (ordinanze comunali volte a disperdere i SFD, rimozione di panchine da luoghi pubblici, ecc..).

D’altra parte, la definizione di una categoria porta con sé almeno due rischi: cristallizzare un processo in una condizione standardizzabile – lo stato presente di SFD, senza la prospettiva individuale passata e quella futura – e mettere in secondo piano i meccanismi – anch’essi dinamici – che hanno determinato la condizione presente e che possono agire per la sua modificazione. Questi ultimi fanno riferimento alle trasformazioni sociali, alle norme e alle istituzioni che, interagendo tra loro, concorrono alla determinazione della condizione individuale. Il rischio cioè è che ricondurre alla sola condizione abitativa - alla presenza di un alloggio e alla sua qualità - la molteplicità delle condizioni individuali determini un appiattimento sugli esiti, tralasciando i processi che li hanno determinati. Un rischio le cui conseguenze ricadrebbero negativamente sugli stessi individui, laddove le basi informative generate dalla categorizzazione vengano assunte per orientare i processi di policy, che sulle condizioni individuali intendono intervenire.

Si tratta, in qualche modo, del problema posto da Sen in relazione alla definizione della povertà e delle politiche pubbliche ad essa connesse (Sen, 2010). Nella sua argomentazione, la povertà può essere trattata tanto da un punto di vista descrittivo, ossia ammettendo che l’identificazione della povertà consiste nel riconoscere l’esistenza della deprivazione, quanto da un punto di vista delle politiche pubbliche, ossia con l’affermazione che la società dovrebbe fare qualcosa per ovviare alla situazione negativa della povertà. Secondo questo secondo punto di vista, “la povertà è essenzialmente una questione di identificazione dell’obiettivo dell’azione pubblica e il suo contenuto descrittivo è solamente una conseguenza” (Sen, 2010), con il rischio concreto – soprattutto in tempo di contrazione delle risorse - che la non disponibilità di risorse pubbliche, da destinare all’eliminazione di situazioni di severa deprivazione, costringa a ridefinire la povertà stessa. Il primo passo, dunque, dovrebbe essere quello di diagnosticare la deprivazione nella sua complessità e, in base a ciò, determinare quello che si dovrebbe fare se si avessero i mezzi. Il secondo passo sarebbe allora quello di effettuare delle scelte concrete di politica pubblica adeguate ai mezzi disponibili: “in questo senso, l’analisi descrittiva della povertà deve essere anteriore alla scelta della politica” in modo da “non commettere l’errore di pensare che l’analisi sia in qualche modo indipendente dalla società in cui la povertà viene esaminata” (Sen, 2010).

La presenza dei SFD, allo stesso modo, chiama in causa i meccanismi sociali, istituzionali e normativi che hanno plasmato il contesto in cui si sono dispiegate le biografie individuali. L’assenza di un alloggio adeguato è, dunque, solo una parte del problema così come la messa a disposizione di un alloggio rappresenta solo parte della soluzione. Ancora di più se si pensa che non esiste, in Italia, il riconoscimento dell’alloggio come Livello Essenziale di Prestazione Assistenziale, ossia come diritto universale esigibile.

 

La misura esplicita e le dimensioni nascoste del fenomeno

Guardando i dati delle indagini ISTAT (2015) sull’argomento - la prima del 2011 e l’ultima del 2014 – condotte utilizzando proprio la classificazione ETHOS, emerge la complessità di cui si intende dare conto. L’indagine è stata condotta su 158 comuni, tra i SFD che hanno avuto accesso almeno una volta ai servizi loro dedicati nel corso dell’anno di riferimento, sottostimando dunque i dati reali (ossia non comprendendo tutti i SFD che non hanno avuto accesso ai servizi ad esempio per ricoveri sanitari o carcerazioni o i SFD presenti nei comuni non censiti o i SFD presenti nei comuni che non hanno servizi loro accessibili/dedicati).

Nel 2014 i SFD (tutte le quattro macro-categorie di cui sopra) censiti in Italia sono circa 50.700, contro 4,8 milioni di poveri assoluti. Per il 9,6% della popolazione residente in Italia, il costo della casa superava – nello stesso anno - il 40% del reddito; il dato saliva al 35,8% nel caso della popolazione in condizione di povertà assoluta. Le persone in condizioni di sovraffollamento alloggiativo rappresentavano il 27,8% del totale della popolazione, che saliva al 39,2% tra le persone in condizione di povertà assoluta. Se, dunque, la condizione di povertà incide sulla possibilità di perdere l’alloggio o di vivere in condizioni non adeguate, non tutte le persone che si trovano in una condizione di povertà assoluta scivolano nella condizione di SFD. Contrariamente all’immaginario collettivo, inoltre, il 62% dei SFD censiti dichiarava un reddito mensile proveniente da attività lavorativa, talvolta irregolare e saltuaria, compreso tra 100 e 499 euro; il 30% viveva di elemosina o espedienti e solo il 7% dichiarava di vivere senza alcuna fonte di reddito. Tra il 2011 e il 2014, tuttavia, diminuisce il numero di quanti hanno un lavoro stabile e aumenta – soprattutto per gli stranieri – la quota di quanti non hanno mai avuto un’attività lavorativa. Nel 2014, tuttavia, solo il 3% dichiarava di ricevere sussidi dal Comune o da altri Enti pubblici. Questi dati raccontano ben oltre la descrizione del fenomeno: di una diseguale distribuzione della ricchezza ma anche di lavoratori poverissimi; raccontano di un accesso selettivo ai sussidi, che spesso non consentono una vita dignitosa. Raccontano, infine, che anche all’interno della povertà più estrema esistono stratificazioni.

La presenza di SFD che usano servizi è maggiore nelle regioni del Nord; oltre un quinto (23,7%) si trova al Centro e solo il 20,3% vive nel Mezzogiorno. In questo caso, tuttavia, è evidente come il risultato sia legato alla presenza dei servizi nei diversi territori. D’altra parte, sono stabili i dati che vedono la concentrazione dei SFD nelle città di grandi dimensioni, Roma e Milano su tutte. Viene confermata, in questo caso, la diversificata geografia dell’assistenza che caratterizza l’Italia (Fargion e Gualmini, 2013) ma anche una dimensione spaziale della povertà (Morlicchio, 2012) e una connotazione urbana dell’esclusione (Bergamaschi e Castrignanò, 2006).

I SFD sono prevalentemente uomini (85,7%), stranieri (58,2%), con meno di 54 anni (75,8%). Nel 2014, il 14,1% degli intervistati ha avuto difficoltà a interagire direttamente con i rilevatori per problemi legati a limitazioni fisiche, a disabilità evidenti (insufficienze, malattie o disturbi mentali) ma anche a problemi di dipendenza oltre che, per la componente straniera, per la scarsa conoscenza della lingua italiana. I dati relativi a queste categorie si dimostrano in aumento. A differenza del passato, nel 2014 la ragione più diffusa che viene dichiarata all’origine della perdita dell’alloggio è la separazione dal partner. La solitudine caratterizza prevalentemente la componente femminile del fenomeno: le donne senza dimora vivono più spesso da sole e sono in crescita, rispetto al 2011, quelle che hanno vissuto come unico evento la separazione dal coniuge o dai figli. Restando sulla dimensione femminile, si riscontra una stabilità nella presenza, sia per numero assoluto che per durata della permanenza in strada. Sono ugualmente distribuite tra italiane e straniere e circa un quarto del totale dichiara di lavorare in media 15 giorni al mese, guadagnando circa 329€. I dati risentono certamente del fatto che le donne sono considerate per sé stesse una categoria vulnerabile (Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia, 2015), per cui esiste una rete di assistenza a maglie più strette rispetto alla componente maschile. Tuttavia, anche nella categoria dei SFD sembrano emergere questioni di genere che attengono prevalentemente alla fragilità della condizione femminile nelle relazioni di coppia e nel mondo del lavoro.

Rispetto ai dati del 2011, cambia sensibilmente il dato relativo alla permanenza nella condizione di SFD, in particolare per la componente maschile e immigrata. Aumenta la quota di chi vive in strada da più di due e da più di quattro anni e, per la componente straniera, questo aumento si associa all’aumento dell’età anagrafica. Circa il 70% degli italiani, prima di finire in strada, alloggiava in una casa privata; circa il 20% degli stranieri, invece, in strutture di accoglienza di diversa natura. Non si colgono variazioni in merito all’entità di chi dichiara di non aver mai avuto una casa (circa il 7% del totale). Questi dati anticipano, almeno in parte, i fallimenti delle politiche migratorie nazionali soprattutto nelle torsioni emergenziali che si sono imposte a partire dal 2011 (Ambrosini, 2017).

C’è un punto nodale intorno cui si articola la molteplicità delle condizioni ricomprese nella categoria di SFD e che, proprio nel processo di categorizzazione, rischia di essere sfumato: l’accesso ai diritti e la loro esigibilità (Gargiulo, 2020). Lungo questa dimensione, ad esempio, si crea la frattura tra chi è cittadino e chi non lo è; tra chi è residente e chi non lo è; tra chi, nella componente immigrata, ha una condizione di parziale o totale irregolarità. Allora, accanto a cittadini italiani residenti avremo cittadine straniere con permesso di soggiorno ma non residenti; accanto a cittadini stranieri con titolo di soggiorno avremo richiedenti asilo in attesa di ottenerlo; accanto a cittadine italiane prive di residenza avremo cittadini stranieri che un titolo di soggiorno non l’hanno mai avuto. Ciascuna di queste configurazioni implica il riconoscimento di alcuni diritti individuali e, a seguire, la possibilità di accedere ai diritti sociali connessi; diffusa è, invece, la difficoltà a esigere i diritti di cui si è titolari.

 

Meccanismi, Istituzioni e norme: il problema dello “scarto”

La molteplicità delle esperienze di vita in strada può essere ricondotta a tre distinti modelli (Kuhn e Culhane, 1998): quello temporaneo, inteso come esperienza di deprivazione abitativa breve e straordinaria; quello episodico, in cui la condizione di vita in strada si ripropone ciclicamente, alternandosi a periodi di maggiore stabilità abitativa, spesso trascorsi in ospedali, prigioni, centri e comunità terapeutiche o centri d’accoglienza di altra natura; infine, il modello cronico, che caratterizza le situazioni che hanno una condizione permanente di vita in strada. Seppure quest’ultima è la condizione più rappresentata nell’imaginario collettivo, è la seconda ad essere maggiormente diffusa. Esistono cioè meccanismi sociali, istituzioni e norme che creano confini sui quali la condizione di SFD si va articolando; fratture che – con un ricorrere ciclico - determinano posizionamenti tra chi aveva (un alloggio) e non ha più e per questo diventa qualcuno (un SFD) smettendo di essere altro.

Senza poter qui mobilitare tutta la letteratura in tema di esclusione sociale, come esito di stratificazione dei diritti e di possibilità categoriale di accesso alle prestazioni, si intende tuttavia porre l’attenzione sul fatto che l’esistenza di confini, come conseguenza della costruzione di un ordine sociale, porta con sé la produzione di un esubero, ossia – con le parole di Bauman - la produzione di “rifiuti umani o, più precisamente, di esseri umani scartati”, come risultato inevitabile della modernizzazione e del progresso economico. Ma c’è di più: le persone considerate in esubero sono viste come un problema finanziario dal momento che i “problemi dei rifiuti umani e del loro smaltimento gravano sempre di più sulla cultura liquido-moderna, consumista, dell’individualizzazione” (Bauman, 2004). Le società modernizzate allora smaltiscono i rifiuti nel modo più radicale ed efficiente: li rendono invisibili non guardandoli e impensabili non pensandoci, creando talvolta categorie che ne oscurano i meccanismi generativi, appiattendosi sugli esiti, e così giustificandoli.

 

Riferimenti bibliografici

  • Ambrosini M. (2017), Migrazioni, Milano, EGEA.
  • Bergamaschi M. e M. Castrignanò (2006), “Povertà e territorio: un approccio ecologico”, Sociologia urbana e rurale, 81, 95-103.
  • Fargion V. e E. Gualmini (2013), Tra l'incudine e il martello, Bologna, il Mulino.
  • Gargiulo E. (2020), Appartenenze Precarie. La residenza tra inclusione ed esclusione, Novara, UTET.
  • ISTAT (2015), Le Persone senza Dimora, Roma, ISTAT.
  • Kuhn R. e D.P. Culhane (1998), “Applying Cluster Analysis to Test a Typology of Homelessness by Pattern of Shelter Utilization: Results from the Analysis of Administrative Data”, American Journal of Community Psychology, 26, 207–232.
  • Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia (2015), 5/11/2015.
  • Morlicchio E. (2012), Sociologia della povertà, Bologna, il Mulino.
  • Sen A. (2010) (trad. it), La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna, il Mulino.

 

Suggerimenti di lettura

  • Bauman Z. (2007) (trad. it), Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza.
Eleonora Costantini
Eleonora Costantini è una sociologa economica, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Da sempre coniuga ricerca e lavoro sul campo, in particolare sui temi della migrazione e dei servizi di welfare.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena