Glossario

Il "Glossario delle disuguaglianze sociali" mira a realizzare una raccolta di voci specificamente dedicate alla problematica delle disuguaglianze economiche e sociali, nella prospettiva di uno strumento di conoscenza e di informazione di base, durevole e continuativo. Le voci presenti sul portale - curate da professori, ricercatori ed esperti sui temi di interesse del Glossario - rappresentano il solido inizio di un progetto sempre attivo e in continua espansione. Pertanto, se pensi che sia ancora assente nel Glossario qualche argomento di rilevo nello studio delle disuguaglianze sociali, non esitare a segnalarcelo (glossario@fondazionegorrieri.it).

Povertà relativa

Scritto da: Chiara Saraceno

 

Definizione

Il concetto di povertà relativa è stato formulato per la prima volta da Peter Townsend (1979) in esplicita critica nei confronti di una definizione in termini di mera sussistenza. Nelle sue parole, “Si può dire che individui, famiglie e gruppi sono poveri quando mancano delle risorse necessarie ad ottenere i tipi di dieta, a partecipare alle attività e avere le condizioni di vita che sono propri della società cui appartengono. Le loro risorse sono così seriamente al di sotto di quelle disponibili all’individuo o famiglia media da escluderli di fatto dalle attività e modi di vita comuni” (p.31). La Commissione europea nel 1984 ha adottato una definizione molto simile: “Si considerano povere le persone, le famiglie, i gruppi le cui risorse (materiali, culturali e sociali) sono così limitate da escluderle dal tipo di vita minimo accettabile nei paesi in cui vivono”.

Due, quindi, sono gli elementi fondamentali di questo concetto. Il primo è che la povertà non riguarda solo la sussistenza materiale, ma la mancanza di risorse - materiali, culturali, di riconoscimento - che consentono la partecipazione alle condizioni di vita comuni. In questo senso, la povertà è sempre pluridimensionale. È una caratteristica che, almeno secondo alcuni approcci, condivisi anche dallo United Nations Development Program (UNDP), dall’OCSE e dalla World Bank, vale anche per la povertà assoluta. Il secondo elemento è quello che attiene specificamente alla relatività: le condizioni di vita comuni sono contestualizzate nello spazio e nel tempo. Ciò che è comune – in termini di composizione della dieta, di modo di vestirsi, di livello di istruzione, di modalità di informazione e così via - non è uguale da una società all’altra e da un periodo storico all’altro. Se nell’Italia degli anni Trenta non avere il bagno in casa e in quella degli anni Cinquanta non avere frigorifero o lavatrice e/o avere la sola licenza elementare, indicavano una condizione economica modesta, ma non povera, oggi non solo queste mancanze sono indicatori di povertà materiale. Rendono anche difficile fare fronte ai bisogni quotidiani e a partecipare alla vita associata rispetto ad un tempo in cui c’erano fontane e lavandaie, passava il venditore del ghiaccio, molti lavori manuali erano accessibili anche agli analfabeti e l’informazione era comunque scarsa.

 

Come identificare il fenomeno?

Naturalmente, il riferimento al contesto pone la questione di come identificarlo, ovvero quale deve essere considerata la società di riferimento per “i modi di vita comuni” (Brandolini e Saraceno, 2007). La società nazionale, subnazionale o un qualche aggregato internazionale? Non si tratta solo o principalmente del fatto che a parità di beni e attività, il costo può differire sia tra aggregati sub-nazionali (ad esempio, in Italia, tra regioni, o tra piccoli e grandi comuni), sia tra stati appartenenti ad uno stesso gruppo (ad esempio entro la UE, o l’OCSE). In questo caso basterebbe utilizzare lo strumento della purchasing power parity, della parità del potere d’acquisto, l’indice che consente di confrontare i livelli dei prezzi tra località diverse. Si tratta piuttosto di decidere quale è lo standard di riferimento comune quando l’appartenenza ad una società è multilivello, quindi gli standard di riferimento possono essere molteplici. Si tratta di una questione insieme metodologica e politica. A seconda della risposta che si dà, il numero e la percentuale dei poveri può variare molto. Ad esempio, in Italia, se si utilizzasse come riferimento il tenore di vita medio a livello sub-territoriale, è probabile che aumenterebbe la percentuale dei poveri al Nord e diminuirebbe nel Mezzogiorno. Si veda, in proposito, l’esercizio fatto qualche anno fa da Freguja e Pannuzi (2007). Ma una decisione di questo genere implicherebbe che si valuta che le persone e le famiglie che vivono nel Mezzogiorno nelle loro aspirazioni devono misurarsi con le condizioni del Mezzogiorno, non con quelle dei loro concittadini delle regioni più ricche. Di solito, proprio perché è anche una questione politica, si utilizza come riferimento la comunità nazionale. Questo avviene anche per le stime dell’Unione Europea della percentuale di popolazione che si trova “a rischio di povertà” (AROP) - questo il termine che viene utilizzato per la povertà relativa - identificandola in coloro che hanno un reddito disponibile pari o inferiore al 60% del reddito mediano del loro paese, non rispetto ad un qualche standard medio comune (per una discussione critica complessiva dell’indicatore europeo “a rischio di povertà” si veda Cantillon et al., 2018). Se il riferimento fosse il reddito mediano a livello UE, non solo il numero e la percentuale complessiva di poveri sarebbero diversi. Sarebbe diversa soprattutto la loro distribuzione tra paesi e la loro incidenza entro ciascun paese, con una incidenza molto più alta tra i paesi più poveri (si veda, ad esempio Brandolini, 2007; e Kangas e Ritakallio, 2007). Già alla fine degli anni Novanta Atkinson (1998) aveva proposto un criterio intermedio, che tenesse conto sì dei diversi tenori di vita tra paesi, ma anche delle forti disuguaglianze nelle condizioni di vita che esse rappresentano all’interno dello spazio comune europeo.

Nonostante il carattere multidimensionale del concetto di povertà relativa, l’indicatore utilizzato per stimarla è di solito il reddito, o il consumo, medio (o mediano). Ovvero si considera convenzionalmente povera in senso relativo una persona o una famiglia il cui reddito (o consumo) disponibile è inferiore alla metà (o in certi casi al 60 per cento) del reddito o consumo medio (o mediano) pro-capite. Per reddito (o consumo) disponibile si intende quello teoricamente disponibile ad una persona tenuto conto sia del reddito complessivo della sua famiglia sia della sua ampiezza, sia dell’esistenza di economie di scala entro una famiglia. A questo scopo si utilizzano scale di equivalenza. La più nota, ed utilizzata a livello internazionale (e in Italia anche dalla Banca d’Italia nella indagine sui bilanci famigliari), è quella cosiddetta OCSE modificata. Essa attribuisce un valore pari a 1 al primo adulto presente in famiglia, un peso 0,5 per ciascun altro adulto e un peso 0,3 per ogni componente di età inferiore ai 14 anni. È la scala che usa anche Eurostat per stimare l’incidenza della povertà relativa (che ora definisce “a rischio di povertà”) come elemento del più complesso set di indicatori sul rischio di povertà ed esclusione sociale (che include anche la deprivazione grave e il vivere in famiglie a bassa o nulla intensità lavorativa). Eurostat, come la Banca d’Italia, utilizza il reddito come metro di misura, basandosi sulla indagine Europea sulle condizioni socio-economiche dei cittadini europei (EU-Silc). L’ISTAT, oltre a partecipare all’indagine europea, da diversi decenni basa le proprie stime sulla povertà sull’Indagine dei consumi (ISTAT, anni vari). Utilizza anche una diversa scala di equivalenza, detta Carbonaro dallo statistico che l’ha messa a punto, basata non sull’età ma solo sul numero di componenti. Ovviamente, al variare dell’indicatore (reddito o consumo), della scala di equivalenza, e della soglia (50 o 60 per cento), le stime della povertà e della sua distribuzione territoriale, o per tipi di famiglie o per gruppi di età, possono differire in modo più o meno marcato.

Il riferimento al reddito, o anche genericamente al consumo, sicuramente non è sufficiente a cogliere la multidimensionalità della povertà. Pur dicendo molto sulle possibilità di una persona di soddisfare i propri bisogni e di condurre il tipo di vita ritenuto adeguato nella società in cui vive, inoltre, il reddito può essere un indicatore solo parziale della povertà materiale. Nei confronti internazionali, inoltre, può produrre una forte sotto-rappresentazione della effettiva distribuzione della povertà tra paesi (Whelan e Maitre, 2008). Anche il livello di consumo complessivo può essere un indicatore troppo generico della effettiva deprivazione in ambiti essenziali di vita. Per ovviare a questi limiti e prendere sul serio la multidimensionalità della povertà occorre non solo sviluppare indicatori multipli, ma verificare se e come questi si sovrappongano a livello micro, degli individui e delle famiglie, entro ciascun paese. Eurostat, con l’indicatore complessivo di Rischio di povertà ed esclusione sociale (AROPEat risk of poverty and social exclusion) ha proceduto solo in parte in questa direzione, nella misura in cui esso è una sommatoria di singoli indicatori - povertà di reddito relativa, vivere in una famiglia a molto bassa intensità lavorativa, soffrire di grave deprivazione - ma non mostra in che misura essi si sovrappongano a livello micro.

Una delle critiche rivolte al riferimento allo standard di vita medio per stimare l’incidenza della povertà relativa riguarda il suo carattere congiunturale. Al variare dello standard di vita, in senso peggiorativo o migliorativo, varia anche l’incidenza della povertà relativa senza che ciò comporti necessariamente un effettivo miglioramento o peggioramento da chi, per effetto di quella variazione, esce o viceversa entra statisticamente nel novero dei poveri relativi. Per lo stesso motivo è difficile interpretare le variazioni nel tempo dell’incidenza della povertà se sono state accompagnate anche da variazioni nello standard di vita. Per ovviare a questo problema, qualcuno suggerisce di utilizzare una linea di povertà “ancorata”: individuata una linea di povertà relativa in un tempo (e contesto) dato, questa viene fissata come punto di riferimento, aggiornandola solo per il variare dei prezzi, per verificare le variazioni successive dell’incidenza della povertà relativa. A ben vedere, in questo caso la linea di riferimento, pur essendo originariamente relativa, viene “assolutizzata”, non tenendo conto delle eventuali variazioni nello standard di vita medio da un anno all’altro. È il metodo utilizzato, tra gli altri, dall’OCSE nel suo Income Distribution database (OECD, 2013).

 

Riferimenti bibliografici

  • Atkinson A. (1998), Poverty in Europe, Oxford, Basil Blackwell.
  • Brandolini A. (2007), “Measurement of income distribution in supranational entities. The case of the European Union”, in S.P. Jenkins e J. Micklewright (a cura), Inequality and poverty re-examined, Oxford, Oxford University Press, pp. 62-83.
  • Brandolini A. e C. Saraceno (2007), “Introduzione”, in id. (a cura), Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze in Italia, Bologna, il Mulino, pp. 9-22.
  • Cantillon B., T. Goedemé e J. Hills (a cura) (2018), Decent incomes for all, Oxford, Oxford University Press.
  • Freguja C. e N. Pannuzi (2007), “La povertà in Italia: che cosa sappiamo dalle varie fonti?”, in A. Brandolini e C. Saraceno (a cura), Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze in Italia, Bologna, il Mulino, pp. 23-60.
  • Kangas O. e V.-M. Ritakallio (2007), “Relative to what? Cross national pictures of European poverty measured by regional, national and European standards”, European Societies, 9(2), pp. 119-145.
  • ISTAT, La povertà in Italia. Anni vari.
  • OECD, The OECD approach to measure and monitor income poverty distribution across countries, Working paper 17, 25 November 2013, presented at the United Nation Commission for Europe, Conference for European statisticians, 2-4 dicembre 2013, Ginevra.
  • Whelan C. T. e B. Maître (2008), “Poverty, deprivation and economic vulnerability in the enlarged EU”, in J. Alber, T. Fahey e C. Saraceno (a cura), Handbook of quality of life in the enlarged European Union, London, Routledge, pp. 201-217.
  • Townsend P. (1979), Poverty in the United Kingdom, Harmondsworth, Penguin.

 

Suggerimenti di lettura

  • Maître B., B. Nolan e C. T. Whelan (2014), “L’indicateur EU2020 de suivi de la pauvreté et de l’exclusion: une analyse critique”, Économie et Statistique, Vol. 469-470, pp. 147-167.
  • Morlicchio E. (2013), Sociologia della povertà, Bologna, il Mulino.
  • Nolan B. e C. T. Whelan (1996), Resources, Deprivation, and Poverty, Oxford, Clarendon Press.
  • Paugam E. (2013), Forme elementari della povertà, Bologna, il Mulino.
  • Saraceno C. (2015), Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, Feltrinelli.

 

Chiara Saraceno
Chiara Saraceno, honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Torino, è stata professore alle Università di Trento e di Torino e professore di ricerca al Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung (WZB). Componente della Commissione di indagine sulla esclusione sociale per diversi anni, ne è stata presidente nel 2000-2001. Con Brandolini ha curato il volume Povertà e benessere (il Mulino 2007), e con Brandolini e Schizzerotto Dimensioni della disuguaglianza (il Mulino 2009). È autrice di Il lavoro non basta (Feltrinelli 2015).

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena