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Indici di povertà

Scritto da: Andrea Brandolini

 

Definizione*

Secondo la classica distinzione di Sen (1976), il primo problema che va affrontato nella misurazione della povertà è come iden­tificare gli individui poveri nella popolazione. Il problema successivo è come sintetizzare in una statistica tutte le informazioni rilevanti del fenomeno. Questa statistica è l’indice di povertà.

 

Criteri di identificazione delle persone povere

Il problema dell’identificazione consiste, in pratica, nella trasposizione della nozione di povertà adottata – assoluta, relativa, soggettiva – in una soglia, di reddito, spesa per consumi o altra variabile, sotto la quale gli individui sono classificati come poveri.

Con uno standard assoluto, si ha indigenza quando il reddito è insufficiente ad acquistare un paniere minimo di beni essenziali. Tradizionalmente si definisce l’apporto calorico minimo necessario alla sopravvivenza e si sceglie un paniere di beni alimentari in grado di fornirlo; sommando al costo di questo paniere una stima delle spese per gli altri beni e servizi necessari (abbigliamento, abitazione, trasporti, ecc.) si ottiene la soglia di povertà. Il valore calcolato per un anno base è quindi aggiornato nel tempo per tenere conto delle variazioni del livello dei prezzi. Questa nozione assoluta ha caratterizzato i primi studi moderni sulla povertà, come quello pionieristico di Rowntree (1901) svolto a York alla fine del XIX secolo. L’indagine condotta nel 1952-53 per la “Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla” identificava la povertà con un basso tenore di vita, misurato da un indicatore sintetico della qualità dell’abitazione, del consumo di carne, zucchero e vino e dello stato delle calzature (Cao-Pinna, 1953). Ai nostri giorni, esempi rilevanti di linea di povertà assoluta sono costituiti dalla soglia di 1,9 dollari al giorno pro capite usata dalla Banca Mondiale (Ferreira et al., 2016), dalla misura ufficiale in uso negli Stati Uniti (Blank, 2008) e dalla metodologia messa a punto dall’Istat (2009).

Adottando uno standard relativo, lo stato di povertà è fissato in base alle condizioni di vita medie della comunità. La disponibilità di un reddito che permette la sussistenza fisica può essere insufficiente a una piena inclusione sociale in una comunità più ricca. Per esempio, la mancanza di un cellulare non mette, in generale, a repentaglio la sopravvivenza, ma può essere problematica quando la grande maggioranza delle persone ne dispone, rendendo più difficili i rapporti sociali o limitando le possibilità di impiego di un disoccupato. La conversione di questa nozione di povertà in una soglia utilizzabile in pratica è generalmente risolta facendo coincidere quest’ultima con una frazione del valore medio o mediano dei redditi; le sue variazioni nel tempo riflettono quindi non solo la dinamica dei prezzi, ma anche la crescita reale dell’economia. Townsend (1962) è stato tra i primi a sostenere che il concetto di povertà è eminentemente relativo e a proporre una linea commisurata al livello medio dei redditi. Nell’Unione Europea, si considerano “a rischio di povertà” le persone che hanno un reddito (equivalente) inferiore al 60 per cento del reddito (equivalente) mediano del paese in cui vivono (Eurostat, 2019; cfr. oltre per la definizione di “equivalente”). L’Istat classifica in povertà relativa le famiglie di due persone che hanno una spesa per consumi sotto la spesa media pro capite nazionale e deriva le soglie per le famiglie di ampiezza diversa applicando una scala di equivalenza (Istat, 2020).

Un terzo modo di fissare la soglia di povertà è affidarsi a uno standard soggettivo e domandare direttamente alle persone quale sia il livello minimo di reddito che ritengono necessario per condurre una vita senza lussi, ma decorosa. Poiché il livello dichiarato è generalmente correlato positivamente con il reddito effettivo degli intervistati, la soglia è fissata in corrispondenza del livello di reddito in cui i valori dichiarato ed effettivo all’incirca coincidono, sulla base della presunzione che chi riceve un reddito vicino a quello che ritiene necessario abbia una miglior percezione del suo livello di chi ne è invece molto al di sopra o al di sotto (Goedhart et al., 1977).

La linea di povertà può essere anche identificata con il livello minimo di reddito previsto dalle politiche pubbliche di assistenza sociale, che rappresenta l’ammontare di risorse che la società ritiene di dover garantire a una persona. Un esempio di questo standard pubblico è costituito in Italia dal livello al quale il trasferimento del Reddito di Cittadinanza integra le entrate familiari (per esempio, 780 euro mensili per una persona che vive sola in un appartamento in affitto). Oltre al problema posto dalla molteplicità di soglie potenziali che discende dall’esistenza di più misure di assistenza sociale, questo metodo è discutibile perché fa dipendere lo standard di povertà dalla generosità del legislatore: quanto più bassi sono i limiti per l’erogazione dei sussidi, tanto minore è la quota dei poveri.

A prescindere dal criterio di identificazione prescelto, la povertà è una condizione generalmente definita a livello familiare, in cui si ipotizza che i redditi, o i consumi, siano sommati e distribuiti in modo eguale tra i componenti della famiglia. Queste ipotesi influenzano la misurazione della povertà.

La definizione della famiglia può essere più o meno ampia, con un effetto a priori ambiguo. La posizione di un giovane disoccupato migliora se è classificato insieme ai genitori con cui vive rispetto al caso in cui sia considerato come un nucleo autonomo; ma la ripartizione di uno stesso reddito su più persone può peggiorare la posizione dei genitori fino a farli ricomprendere tra i poveri. Nelle stime di Johnson e Webb (1989) per il Regno Unito prevaleva il primo effetto e la quota di persone a basso reddito nel 1983 si riduceva significativamente prendendo una definizione più estesa di famiglia.

La distribuzione delle risorse all’interno della famiglia segue regole complesse, frutto di comportamenti individuali, consuetudini sociali e norme giuridiche, che rendono difficile stimarla empiricamente. Abitualmente, si suppone quindi che la distribuzione tra i membri della famiglia sia paritaria. L’effetto di questa ipotesi sulle misure di povertà è tuttavia incerto (Haddad e Kanbur, 1990). Nel caso del giovane disoccupato appena considerato, la condivisione del reddito dei genitori può sollevarlo sopra la linea di povertà. D’altra parte, il reddito pro capite di una famiglia potrebbe essere inferiore alla soglia, ma il reddito di un suo membro potrebbe essere sufficiente a farlo classificare come non povero se la distribuzione intra-familiare non fosse uguale. Sul piano empirico, l’abbandono dell’ipotesi di equi-distribuzione è particolarmente rilevante per l’analisi delle differenze tra donne e uomini (Ponthieux, 2017).

Il tenore di vita dipende non solo dall’ammontare di risorse a disposizione, ma anche dalla composizione di una famiglia. Un livello di reddito che consente una vita appena confortevole a una persona sola è molto probabilmente insufficiente per una coppia con due figli. Usando una scala di equivalenza si tiene conto delle economie di scala nei consumi (le spese di riscaldamento non crescono proporzionalmente al numero di persone che condividono l’abitazione) e dei diversi bisogni dei membri della famiglia (le necessità di un bambino sono diverse da quelle di un adulto), rendendo il reddito di una generica famiglia “equivalente”, cioè confrontabile in termini di tenore di vita, a quello di una famiglia di riferimento.

 

Indici di povertà unidimensionali

Una volta individuate le persone povere, occorre elaborare indici che ne sintetizzino il numero e le caratteristiche. La soluzione più immediata è contare quanti siano i poveri e calcolare quanto pesino sulla popolazione totale. Indicando con z la soglia di povertà, l’indice di diffusione o incidenza (head count rate) è H = q/N, dove q è il numero di persone con reddito minore o uguale a z e n è il numero totale delle persone. (Si noti il diverso uso dei termini rispetto all’epidemiologia, dove “incidenza” si riferisce solo ai nuovi casi che si manifestano in un intervallo di tempo, mentre la diffusione di un fenomeno nell’intera popolazione in un dato istante è denominata “prevalenza”.)

L’indice H non è sensibile alla severità della povertà, poiché il suo valore non indica se gli individui poveri abbiano redditi di poco inferiori alla soglia o versino invece in una condizione di grave indigenza. Un indice di intensità (poverty gap ratio), che misura quanto poveri sono i poveri, è il divario medio di povertà

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dove le persone sono ordinate per valore crescente di reddito (yq ≤ z < yq+1) e μq è il reddito medio dei poveri. Mentre H è indifferente all’intensità della povertà, I è indifferente alla sua diffusione nella popolazione.

Nessuno dei due indici H e I distingue tra chi ha un reddito di poco inferiore alla soglia e chi ha un reddito quasi nullo. In altri termini, essi non dipendono da come sono distribuiti i redditi tra gli individui in povertà. In accordo con il principio dei trasferimenti di Pigou-Dalton usato nella misurazione della disuguaglianza (Atkinson e Brandolini, 2015), si potrebbe invece argomentare che un trasferimento “regressivo” di reddito da una persona poverissima a a una meno povera b debba aumentare l’indice di povertà, poiché rende più disuguali i poveri tra loro. Seguendo questa linea di ragionamento Sen (1976), ha proposto la misura S = HI + H (1 – I)Gq, dove Gq è il coefficiente di Gini calcolato tra le persone povere. Quando i poveri hanno tutti lo stesso reddito (Gq = 0), l’indice S si riduce a HI, ovvero al divario medio di povertà pro capite (anziché per povero). L’indice S rispetta il principio di Pigou-Dalton, e quindi aumenta a fronte del trasferimento di reddito da a a b, a condizione che il reddito di b non oltrepassi la linea di povertà dopo il trasferimento; se ciò avvenisse, il segno della variazione di S sarebbe a priori ambigua (H scenderebbe, mentre I salirebbe). Questo problema può essere superato con una diversa normalizzazione (Shorrocks, 1995).

Prima di Sen, un indice di povertà sensibile alla distribuzione dei redditi tra i poveri era stato proposto da Watts (1968):

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Varie altre classi di misure sensibili ai trasferimenti di reddito tra poveri sono state elaborate in seguito (Zheng, 1997). Tra queste, quella che ha riscosso maggiore attenzione è la famiglia di indici caratterizzata da Foster, Greer e Thorbecke (1984):

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Il parametro a misura l’avversione alla povertà: quanto più a è grande, tanto maggiore è il peso dei più poveri nell’indice. L’indice Pa coincide con H quando a = 0 e con HI quando a = 1; soddisfa il principio di Pigou-Dalton solamente se a > 1. Quest’indice ha la proprietà di essere esattamente scomponibile per gruppi: se si suddivide la popolazione in gruppi omogenei rispetto a caratteristiche socio-demografiche prefissate, l’indice di povertà totale è uguale alla media degli indici specifici di ciascun gruppo ponderati per il loro peso sulla popolazione totale.

La letteratura teorica ha sviscerato le diverse proprietà dei vari indici di povertà. Queste proprietà aiutano a comprendere quali aspetti del fenomeno essi siano in grado di cogliere, portando eventualmente a selezionare alcuni indici rispetto ad altri. In pratica, sono tuttavia molto pochi gli indici regolarmente pubblicati dagli istituti di statistica e nelle analisi applicate. La quota dei poveri nella popolazione rimane la statistica nettamente più utilizzata per misurare la povertà, affiancata in molti casi dal divario di povertà (cfr. Istat, Eurostat, Census Bureau negli Stati Uniti e Banca Mondiale).

Nonostante la popolarità, l’indice di incidenza non è tuttavia esente da critiche. Molti anni fa, Watts (1968: 326) osservò che un indice che si limita a calcolare la quota dei poveri nella popolazione ha “poco che lo renda consigliabile se non la sua semplicità”. Una conseguenza problematica del trattare tutti i poveri allo stesso modo, indipendentemente dal loro livello di reddito, è che l’allocazione ottimale di un sussidio che massimizzasse la riduzione della povertà beneficerebbe innanzitutto i meno poveri tra i poveri (Bourguignon e Fields, 1990). D’altra parte, come ha rimarcato Atkinson (1987: 755), “un reddito minimo può essere visto come un diritto fondamentale, nel qual caso il conteggio dei poveri può essere abbastanza accettabile come misura del numero di persone private di tale diritto”.

 

Indici di povertà multidimensionali

Gli indici considerati finora sono stati elaborati per la misurazione della povertà con una singola variabile, come il reddito o la spesa per consumi. La condizione di povertà è però un fenomeno multidimensionale di cui l’insufficienza di risorse economiche è solo un aspetto, per quanto probabilmente il più rilevante.

Vi è una consolidata tradizione di ricerca empirica che esamina un insieme di indicatori di deprivazione, anziché il reddito o la spesa per consumi, e misura l’entità della deprivazione “contando” il numero di persone che non raggiungono un livello minimo degli indicatori selezionati. Atkinson (2003) l’ha chiamata counting approach. Le persone povere possono essere alternativamente identificate con chi non raggiunge la soglia minima in tutti gli indicatori (criterio dell’intersezione), con chi non la raggiunge in almeno un indicatore (criterio dell’unione) o con chi non la raggiunge in almeno c indicatori degli m considerati (criterio della doppia soglia).

Nel caso in cui siano esaminate solamente due dimensioni, Atkinson (2003) ha proposto l’indice Ak = 2−k (H1 + H2) + (1 − 21−k) H12, k ≥ 0, dove Hj è la quota di individui deprivati nella dimensione j e H12 quella di individui deprivati in entrambe le dimensioni (l’espressione precedente è normalizzata dividendo quella originale di Atkinson per 2k). Quando k è uguale a 0, l’indice considera tra i poveri tutti gli individui deprivati in almeno una dimensione (criterio dell’unione). Man mano che k cresce, aumenta il peso nell’indice di chi è deprivato in entrambe le dimensioni, fino a considerare solo questi ultimi per κ molto grande (criterio dell’intersezione).

Tra gli indicatori utilizzati nel monitoraggio del progresso sociale nell’Unione Europea (Eurostat, 2019), l’indice di grave deprivazione materiale si basa sul criterio della doppia soglia e calcola la quota di persone che non possono permettersi almeno quattro tra i nove attributi giudicati necessari per una vita dignitosa (un’abitazione sufficientemente riscaldata, un’automobile, una lavatrice, una vacanza di una settimana lontano da casa, ecc.); l’indice complessivo usa invece il criterio dell’unione e identifica le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale con chi vive in una famiglia con almeno una tra le tre condizioni di disagio (reddito insufficiente, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro).

Questi indicatori sono varianti dell’indice H in situazioni in cui la povertà è definita da una molteplicità di caratteristiche. Negli anni recenti, vari studi hanno generalizzato al caso multidimensionale gli indici univariati considerati in precedenza (Aaberge e Brandolini, 2015). Il principale elemento di novità dell’analisi in più di una dimensione è rappresentato dalla necessità di formulare ipotesi sulla ponderazione degli attributi che definiscono la povertà e sul loro grado di sostituibilità. Per esempio, Bourguignon and Chakravarty (2003) hanno proposto una versione multidimensionale dell’indice Pa  

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dove aj misura il grado di avversione alla povertà separatamente per ogni dimensione j. Se le dimensioni hanno tutte lo stesso peso, wij è uguale a 1 quando la persona i è deprivata nella dimensione j (yij < zj) e 0 nel caso opposto; se invece le dimensioni hanno peso diverso, wij è uguale a mj, anziché a 1, dove mj, con Σmj = m, è il peso assegnato alla dimensione j.

La misurazione multidimensionale della povertà è divenuta un campo di ricerca molto attivo dalla fine del XX secolo, in parte rilevante per impulso degli sviluppi analitici della “teoria delle capacità” (capability approach; Sen, 1992). In quest’ambito, Alkire e Foster (2011) hanno sviluppato la classe di indici di povertà multidimensionali

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che si differenzia dalla misura proposta da Bourguignon and Chakravarty (2003) per l’applicazione del criterio della doppia soglia invece di quello dell’unione. Il grado di deprivazione medio è, infatti, calcolato non tra tutti gli n individui nella popolazione, ma solamente tra i q individui classificati come poveri perché deprivati in almeno c delle m dimensioni considerate. Ne consegue che nella valutazione della povertà si ignorano le privazioni sofferte dalle persone che sono deprivate in meno di c dimensioni. Questa classe di indici comprende la misura M0 = HV, che combina l’incidenza della povertà H con la proporzione media V di deprivazioni sofferte dalle persone povere e può essere calcolato con indicatori sia ordinali sia cardinali. L’indice M0 è incluso con il nome di MPI (Multidimensional Poverty Index) tra gli indicatori di sviluppo umano elaborati dalle Nazioni Unite (UNDP, 2020).

 

Riferimenti bibliografici

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  • Haddad L., e R. Kanbur (1990), “How Serious Is the Neglect of Intra-household Inequality?”, Economic Journal, 100(402), 866-881.
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  • Istat (2020), “Le statistiche dell’Istat sulla povertà. Anno 2019 – Nel 2019 in calo la povertà assoluta”, Statistiche Report, 16 giugno 2020, Roma, Istat.
  • Johnson P., e S. Webb (1989), “Counting People with Low Incomes: the Impact of Recent Changes in Official Statistics”, Fiscal Studies, 10(4), 66-82.
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Suggerimenti di lettura

  • Atkinson A.B. (1998), Poverty in Europe, Oxford, Blackwell.
  • Foster J.E. (1998) “Absolute versus Relative Poverty”, American Economic Review Papers and Proceedings, 88(2), 335-341.
  • Hagenaars A. (1986), The Perception of Poverty, Amsterdam, North Holland.
  • Jäntti M., e S. Danziger (2000), “Income poverty in advanced countries”, in A.B. Atkinson e F. Bourguignon (a cura di), Handbook of Income Distribution, Volume 1, 309-378, Amsterdam, North-Holland.
  • Jenkins S. (1991), “Poverty Measurement and the Within-Household Distribution: Agenda for Action”, Journal of Social Policy, 20(4), 457-483.
  • Ravallion M. (2016), The Economics of Poverty: History, Measurement, and Policy, New York, Oxford University Press.
  • Sen, A.K. (1997), On Economic Inequality, expanded edition with a substantial annexe by J.E. Foster and A.K. Sen, 107-219, Oxford, Clarendon Press.

 

* Banca d’Italia, Dipartimento Economia e statistica. Le opinioni espresse sono mia esclusiva responsabilità e non impegnano la Banca d’Italia.

Andrea Brandolini
Andrea Brandolini è economista nel Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia. Ha pubblicato lavori su povertà, distribuzione di reddito e ricchezza, misurazione del benessere, questioni di economia del lavoro e storia del pensiero economico.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena