Lavoro di cittadinanza
Definizione
L’espressione “lavoro di cittadinanza”, utilizzata da molto tempo, è tornata in auge di recente, da quando in Europa si è riproposto con enfasi un dibattito sul “reddito di cittadinanza” (in Italia cavallo di battaglia, a parole, del Movimento 5Stelle). Con l’espressione “lavoro di cittadinanza” ci si riferisce a un diritto all’occupazione che deve essere garantito dallo Stato a tutti i cittadini, come postula la Costituzione italiana. In alcune versioni, per esempio in quella di “lavoro garantito” sostenuta dall’americano (di ispirazione socialista) Bernie Sanders, la garanzia del diritto universalistico al lavoro – interpretata come attualizzazione contemporanea dell’obiettivo keynesiano della “piena e buona occupazione”, colpevolmente lasciato cadere dai governi di tutto il mondo nel trentennio neoliberista – viene spinta fino all’idea di forzare i meccanismi spontanei del mercato, attribuendo allo Stato (in un’accezione larga, e cioè come Agenzie federali e come strutture pubbliche locali) la responsabilità della generazione di lavoro addizionale (non sottopagato e di buona qualità) per tutti quelli, in particolare giovani e donne, che ne abbiano necessità e ne facciano richiesta. È l’ipotesi dello Stato come employer of last resort, la quale vanta un grande antecedente storico costituito dal New Deal di Roosevelt e una nobile tradizione teorica che da Keynes va a Meade, a Minsky, ad Atkinson e ad altri ancora.
I profili del lavoro di cittadinanza
Già da queste prime battute emerge la diversità tra un diritto al lavoro che lo Stato deve garantire universalisticamente a tutti i cittadini e l’atteggiamento presupposto dalla visione paternalistica che si concentra sull’elargizione di benefici monetari a un indistinto e massificato popolo. Per esplorare ulteriormente la categoria di lavoro di cittadinanza conviene, dunque, soffermarsi su simili diversità, scandagliabili sotto vari profili, due dei quali di grande interesse: il profilo dei costi e quello dei significati culturali. Sotto il primo profilo il lavoro di cittadinanza avrebbe vantaggi enormi con costi molto contenuti. Nel Libro Bianco di accompagnamento al Piano del lavoro lanciato fin dal 2013 dalla CGIL (Pennacchi, 2013), è stato calcolato che per l’Italia con 5 miliardi di euro l’operatore pubblico – in tutte le sue articolazioni centrali e territoriali e con progetti seri e ben costruiti – può creare direttamente 400.000 posti di lavoro in un anno. Luciano Gallino – che negli ultimi anni di vita ha sostenuto appassionatamente la priorità del lavoro sul reddito – aveva calcolato che con 15 miliardi i posti di lavoro creati possono diventare addirittura 1 milione. Il limitato ammontare che sarebbe richiesto da piani straordinari per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne ispirati al New Deal va raffrontato con i rilevantissimi problemi di costo posti dalle ipotesi di “reddito di base” o reddito di cittadinanza, soprattutto se esse vengono prese alla lettera come è giusto fare. Tali costi sarebbero immensi, al punto che per l’Italia si parla di un centinaio di miliardi di euro. Un costo così illimitato rende le seconde semplicemente irrealizzabili e i primi assai più credibili, bisognosi, però, di una volontà politica ben altrimenti radicale di quella che si esprime nell’erogazione di una miriade di bonus e voucher e nella concessione di tante riduzioni delle tasse, che sono sempre trasferimenti monetari. Del resto, in favore dell’opzione di operare con un intervento pubblico di spesa volto a rilanciare gli investimenti e per questa via l’occupazione, tutte le fonti segnalano la forza maggiormente espansiva, a parità di risorse impiegate, di programmi di spesa diretta rispetto a programmi di semplici trasferimenti monetari e/o riduzione delle imposte.
Il profilo culturale con cui esplorare la fertilità dell’ipotesi lavoro di cittadinanza è ancora più rilevante. L’esplorazione in termini di profilo culturale, infatti, ci offre l’occasione di tornare a ragionare sugli stessi fondamenti concettuali del rilancio della centralità del significato del lavoro nelle società contemporanee, contrastando la deriva di sottovalutazione o addirittura di svalutazione del lavoro radicatasi nel trentennio dell’egemonia neoliberista, che ha imposto i suoi pilastri, in primis la nozione desoggettivizzata di agente economico (si veda Pennacchi, 2015). Ma nessuna ricostruzione di soggettività, individuale e collettiva, sarà possibile se si prescinde dal lavoro e in questo senso appaiono spesso approssimative le ricostruzioni – correnti tra i cultori del reddito di cittadinanza – della soggettività “lavoristica” al cuore della mediazione costituzionale novecentesca, vista come irrimediabilmente logorata. In realtà, non è corretta la valutazione di banale inadeguatezza che i sostenitori del reddito di cittadinanza sembrano dare del “welfare assicurativo di matrice fordista”. Analisi molto serie hanno mostrato che alla fine degli anni ’90 del Novecento il welfare state, specie europeo, non era affatto in crisi, ma aveva raggiunto “uno stato di maturità” largamente soddisfacente, mentre è stato l’attacco, volto al retrenchment mirato alla “restaurazione di classe” neocapitalistica, ingaggiato dal neoliberismo, a provocarne una parziale dissoluzione. La difesa del welfare state e l’invenzione di nuove forme solidaristiche da parte delle sinistre, irretite nella subalternità culturale a quella forma di “neoliberismo temperato” che sono state le Terze Vie, sono state totalmente insufficienti e ciò peraltro spiega in grande misura la loro afasia e inerzia attuali. Ma preoccupano i tanti sostenitori odierni del reddito di cittadinanza che ambiscono a costruire un “welfare per la non piena occupazione” e che non dissipano la vaghezza di cui ammantano la retorica sul “welfare non produttivistico”, senza precisare che fine fanno, nell’ipotesi di generalizzazione del reddito di cittadinanza, cose molto concrete come la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, la previdenza pubblica.
Va detto che durante il trentennio neoliberista ha agito, anche a sinistra, un ostracismo più di fondo dato alla problematica dei “valori” – compreso il valore del lavoro – in particolare come implicazione del decostruzionismo à la Derrida e à la Foucault (si veda Pennacchi, 2018). Se si accettano i postulati della postmodernità – l’universale e l’umano sono fantasie totalizzanti – si giunge a un sovrano disprezzo per ogni critica della neutralità della tecnica e a condannare ogni tentativo che cerchi di recuperare concetti universali come la dignità umana, la giustizia, la verità, l’autonomia, considerando la riflessione sullo sfruttamento e l’alienazione un ritorno alle illusioni, dichiarate “regressive”, di Rousseau, Fromm e Marcuse. In questo humus si colloca anche l’idea non di “liberazione del lavoro” ma di “liberazione dal lavoro” che da sempre anima teorici come Toni Negri e in questo humus si è giunti a titolare interi libri a “Lavoro male comune” (Fumagalli, 2013).
L’economia che uccide
L’esplorazione culturale del lavoro di cittadinanza consente di interpretare questo complesso di reticenze, quando non veri e propri ripudi, spingendosi anche più in là, al deficit di teoria più generale che ereditiamo da una parte dal neoliberismo, dall’altra da specifici filoni del pensiero novecentesco: si pensi alla influenza, che si è riflessa anche in Habermas, di quella parte del pensiero di Hanna Arendt – giustamente preoccupata degli aspetti inquietanti delle società di massa – che dei regimi totalitari denunziava la riduzione della vita activa a lavoro e dell’“animale politico” a animal laborans. Così attrezzati, possiamo agire sulla stessa riscoperta di Marx e della sua critica al capitalismo, indotta dalla crisi economico-finanziaria del 2007/2008, arrivando fino al recupero del giovane Marx che, con Hegel, vede nel lavoro il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra sé stesso e la natura, cambia sé stesso dandosi una funzione auto-trasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità. E possiamo meglio situare il fatto stupefacente che oggi, di fronte a quella che i democratici americani non esitano a definire job catastrophe, in Europa solo soggetti religiosi – come Papa Francesco, che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” (Tornielli e Galeazzi, 2015) e che grida “non reddito ma lavoro per tutti” – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore, chiedendo di “non ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici” e riaffermando la natura di relazione tra soggetti del rapporto lavorativo, soggetti “titolari di una ‘dignità’ e non solo di un ‘prezzo’”.
Solo su queste basi si riesce a cogliere l’enorme significato, anche antropologico, della vitale “inquietudine creatrice” di cui parla il giovane Marx, sempre soggettivamente racchiusa nel lavoro. Si coglie che il lavoro è fattore vitale dell’identità del soggetto e attribuzione di significato all’esperienza esistenziale, esprime un’intrinseca dimensione di apertura verso il mondo e verso gli altri, contiene relazioni plurime (con il contesto in cui l’attività lavorativa si svolge, con il sapere e l’esperire di chi ha operato precedentemente, con gli altri che lavorano), il suo senso è impregnato di desiderio, quel desiderio che è un moto verso una destinazione mancante, un orizzonte nel quale non si è e al quale si aspira. Vengono in mente le parole con cui Simone Weil (1955) si commuove per gli operai che di domenica conducono le famiglie a vedere le loro fabbriche e si entusiasma per le “righe di accento lirico” con cui Marx parla del lavoro. Non a caso nella Costituzione italiana la triplice centralità del lavoro – antropologica (il lavoro tratto tipico della condizione umana), etica (il lavoro espressione primaria della partecipazione al vincolo sociale), economica (il lavoro base del valore che obbliga a politiche di piena occupazione) – segna un “profondo distacco” (Luciani, 2010) dalla elitaria concezione arendtiana, sotto il profilo dei fondamenti di eguaglianza, di libertà, di autodeterminazione, ma anche sotto il profilo delle connessioni tra “operare” ed “agire” (invece scissi da Hanna Arendt) in cui l’homo faber incrocia e incontra l’homo politicus in un nuovo percorso umanistico. E non a caso Bruno Trentin (2008) poneva al centro della costruzione di un nuovo modello di sviluppo un’idea del lavoro come libertà, autonomia, creatività, identificando nella “liberazione del lavoro il nucleo creativo della democrazia” e sostenendo che “l’autorealizzazione della persona” è inscindibile da quella del lavoro, l’una e l’altra prerequisiti essenziali dell’avanzamento sociale.
La distanza tra lavoro e reddito di cittadinanza
È evidente la distanza tra il background concettuale del lavoro di cittadinanza e quello del reddito di cittadinanza o “reddito di base”. Il monetarista Milton Friedman, tra i primi sostenitori della proposta di “reddito di base incondizionato”, ne formulò una versione che comportava riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella “imposta negativa”. L’alone libertarian avvalora, pur di realizzare il “reddito di base”, l’immagine di uno stato sociale “minimo” non troppo diverso da quello “residuale” ipotizzato dalle destre, le cui varianti più conseguenti suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento. Tali lontane ascendenze libertarian sono forse all’origine della strana resistenza a fare i conti con le implicazioni più profonde della crisi “senza fine” esplosa nel 2007/2008 che si registra nel dibattito odierno su lavoro di cittadinanza/reddito di cittadinanza, quasi che i sostenitori di quest’ultimo fossero indifferenti ad un’analisi politico-strutturale del neoliberismo e dei suoi esiti più devastanti, comprese le minacce alla democrazia e le degenerazioni populistiche. Spesso la motivazione di fondo con cui si giustifica il reddito di cittadinanza è del tipo “tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile”, con la quale, però, il reddito di cittadinanza viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si viene ad essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde. È questa la convinzione di Van Parijs e Vanderborght (2017) e di Standing (2014), i quali argomentano che il destino delle società occidentali è di essere “società senza lavoro”, per questo da compensare e da risarcire monetariamente con forme di reddito di cittadinanza che antepongano la rivendicazione del “reddito” a quella del “lavoro”.
Rimane quasi del tutto assente il tentativo di intrecciare l’analisi delle trasformazioni con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico nella sua distruttiva versione neoliberista. Ma bisogna – argomentava Atkinson (2015) che non a caso sosteneva la proposta del “reddito di partecipazione” e non quella del reddito di cittadinanza – recuperare uno spirito critico radicale e smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di reddito di cittadinanza) di alcuni imprenditori della Silicon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione e la creazione di lavoro sono guidate dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e dai bisogni dei cittadini, ai quali bisognerebbe dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito. Al contrario, riproporsi in termini di radicalità valoriale la problematica del lavoro ha anche il merito di echeggiare un’esigenza di analoga radicalizzazione per quanto riguarda la considerazione di ogni altro valore, compreso il valore dell’eguaglianza, esaminando quest’ultima non solo in termini redistributivi ma anche allocativi e strutturali. Perseguire la radicalità valoriale implica non rimuovere le questioni di struttura e di allocazione nel cui ambito soltanto valori e fini si definiscono nella loro alternatività, volta a specificare modelli di sviluppo concorrenti, e nella loro forza promozionale ex ante, non soltanto nella loro capacità compensatrice ex post. La radicalità valoriale e il coinvolgimento delle questioni di struttura e di allocazione, a loro volta, consentono di concentrare l’attenzione sulla enorme, ma spesso trascurata, problematica degli investimenti, specie pubblici, sui quali la mannaia della crisi del 2007/2008 è calata con particolare ferocia, ma senza i quali, e senza la creazione di lavoro in quantità e qualità straordinaria – tanto quanto lo è la odierna situazione giovanile e femminile –, anche con il lancio di Piani del lavoro e l’attivazione dello Stato come employer of last resort, nessun nuovo modello di sviluppo potrà essere pensato e realizzato.
Riferimenti bibliografici
- Fumagalli A. (2013), Lavoro Male Comune, Milano, Mondadori.
- Luciani M. (2010), “Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro”, ADL, 3/2010.
- Pennacchi L. (2013, a cura di), Libro bianco Tra crisi e grande trasformazione, Roma, Ediesse.
- Pennacchi L. (2015), Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Roma, Ediesse.
- Pennacchi L. (2018), De valoribus disputandum est. Sui valori dopo il neoliberismo, Milano-Udine, Mimesis.
- Standing G. (2014), A Precariat Charter. From Denizens to Citizens, Londra, Bloomsbury.
- Tornielli A. e G. Galeazzi (2015), Papa Francesco. Questa Economia Uccide, Milano, Piemme.
- Trentin B. (2008), Lavoro e libertà, Roma, Ediesse.
- Van Parijs P. e Y. Vanderborght (2017), Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, Il Mulino.
- Weil S. (1955), Oppression et liberté, Parigi, Gallimard (trad. it., Oppressione e libertà, Napoli-Salerno, Orthotes, 2015).
Suggerimenti di lettura
- Atkinson A.B. (2015), Inequality. What can be done?, Cambridge (MA), Harvard University Press.
- Keynes J.M. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, Londra, Palgrave Macmillan (trad. it., Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet, 1971).
- Marx K. (1932), Manoscritti economico-filosofici del 1844, (trad. it., Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1969).
- Minsky H.P. (2013), Ending poverty: jobs, not welfare, Annandale-on-Hudson (NY), Levy Economics Institute of Bard College (trad. it., Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Roma, Ediesse, 2014).
- Pennacchi L. (2018), De valoribus disputandum est. Sui valori dopo il neoliberismo, Milano-Udine, Mimesis.
- Trentin B. (1997), La citta del lavoro, Milano, Feltrinelli.
- Weil S. (1955), Oppression et liberté, Parigi, Gallimard (trad. it., Oppressione e libertà, Napoli-Salerno, Orthotes, 2015).