Povertà, reddito e ricchezza

Povertà, reddito e ricchezza costituiscono concetti e fenomeni empirici intimamente connessi tra loro. La povertà, in prima approssimazione, rappresenta la forma più estrema di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Il reddito fa riferimento al potere d’acquisto di beni e servizi da parte di un individuo, di una famiglia o di una collettività, consentito dall’ammontare delle rispettive entrate monetarie. Gli scienziati sociali, economisti in testa, riservano a reddito e ricchezza una particolare attenzione perché (a) in tutte le società a economia di mercato la loro distribuzione appare fortemente differenziata e (b) i livelli di vita degli individui e dei gruppi risultano strettamente connessi alla rispettiva posizione nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Quanto alla ricchezza, essa coincide con il patrimonio mobiliare e immobiliare di individui, famiglie o collettività, ossia con l’insieme delle risorse materiali dotate di un valore di mercato. 

I concetti di reddito e ricchezza hanno portato alla definizione dei seguenti temi specifici:  

• povertà (misure di povertà e politiche di contrasto alla povertà);

• reddito;

• ricchezza.

Povertà, reddito e ricchezza costituiscono concetti e fenomeni empirici intimamente connessi tra loro.
Per la povertà, in prima approssimazione, si può affermare che rappresenti la forma più estrema di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Si è infatti soliti chiamare poveri i soggetti privi di entrate monetarie o con entrate monetarie così contenute da costringerli a condurre un livello di vita talmente basso che la generalità dei componenti della collettività, cui gli stessi poveri appartengono, lo ritiene inaccettabile e non degno di un essere umano.
Nella definizione appena enunciata la povertà costituisce una condizione eminentemente relativa, ossia variabile da collettività a collettività e, entro una stessa collettività, di tempo in tempo. Il livello di vita ritenuto pienamente accettabile da una comunità con redditi medi piuttosto contenuti, può essere giudicato del tutto insostenibile da una comunità con maggiori disponibilità monetarie medie. Analogamente una stessa comunità, nel passato, può avere considerato dignitose condizioni di esistenza quotidiana che, oggi, essa stessa valuta assolutamente inaccettabili. Una simile variabilità di criteri classificatori solleva problemi di affidabilità, e di equità, non solo nelle comparazioni tra società ed epoche diverse, ma anche in uno stesso momento entro una medesima collettività. Si pensi, ad esempio, agli ampi divari di reddito e di costo della vita esistenti tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali d’Italia, con il conseguente paradosso che una persona definita povera in quelle non lo sarebbe affatto qualora vivesse in queste.
Per superare le incertezze derivanti dalla richiamata concezione relativa della povertà, sono state avanzate varie proposte per definirla in termini assoluti. In questa seconda prospettiva, la povertà è intesa come uno stato di carenza reddituale tale da mettere a rischio la sopravvivenza e, comunque, la conservazione della salute psico-fisica di chi ne rimane vittima. In prima istanza parrebbe che una simile definizione sia effettivamente indipendente dal tempo e dallo spazio. In realtà condizioni sociali ed economiche diverse rendono profondamente difformi, anche a parità di situazione ambientale e territoriale, i costi necessari per garantire la produzione e la riproduzione nel tempo delle persone.
Proprio in base a questa considerazione, e  alla convinzione che, almeno nelle società avanzate, la responsabilità collettiva nei confronti dei singoli individui non possa limitarsi a garantirne la mera sopravvivenza psico-fisica, la nozione di povertà attualmente più utilizzata dagli studiosi è quella di carattere relativo. Al fine di fornire una misura della povertà intesa in termini relativi, si usa prendere in esame il reddito (annuo) disponibile (ossia al netto delle tasse) di una famiglia, dopo averlo reso equivalente. E si è soliti definire poveri i componenti di quella famiglia il cui reddito disponibile, reso equivalente, si trovi al di sotto di una certa proporzione del valore mediano della distribuzione dei corrispondenti redditi nella popolazione (usualmente quella di un Paese, ma anche quella di una regione, di una provincia o di un comune) di cui quella famiglia è parte. La ragione per cui, nel misurare la povertà, non si fa riferimento al reddito netto effettivo, ma, come detto, a quello reso equivalente sta nella considerazione che al crescere delle dimensioni di una famiglia si realizzano economie di scala nei costi da sostenere per mantenerla. Detto diversamente: le esigenze economiche di una famiglia, per garantire ai suoi membri uno stesso tenore di vita, non crescono in modo direttamente proporzionale al numero di questi ultimi, ma in misura inferiore. Per calcolare il reddito equivalente di una famiglia si divide quello effettivo per il numero dei suoi componenti pesati secondo varie scale, o coefficienti, dette, appunto, “scale di equivalenza”. La proporzione del reddito equivalente mediano di una popolazione che si è soliti considerare come soglia della povertà varia entro un intervallo che va dal 50% al 70% di questo stesso reddito.
Il metodo di misura della povertà e di conteggio dei poveri che si è appena riassunto presenta il limite di considerare solo i redditi annui delle famiglie. È noto, infatti, che, soprattutto in alcune categorie occupazionali, le entrate monetarie possono subire notevoli fluttuazioni nel tempo. Può, così, accadere che una famiglia, in un dato anno, rientri tra quelle povere e l’anno successivo tra quelle non povere. Può, inoltre, accadere che le famiglie temporaneamente povere posseggano ricchezze sufficienti per evitare qualsiasi riduzione dei livelli materiali di vita nel periodo di momentanea contrazione del loro reddito. Per cercare di porre, almeno in parte, riparo a questo limite, gli studiosi hanno iniziato a studiare la mobilità nella condizione di povertà e a distinguere le famiglie stabilmente povere, da quelle che lo sono solo in via transitoria.
In Italia, ancora oggi, la povertà (relativa) viene  misurata facendo riferimento ai consumi. In termini approssimativi, si può dire che nel nostro Paese è classificata come povera quella famiglia i cui singoli membri hanno un livello di consumo inferiore alla metà di quello medio pro-capite. Il ricorso ai livelli di consumo presenta vari inconvenienti. Due paiono di particolare importanza. Innanzitutto, l’impossibilità di stabilire se livelli contenuti di consumo derivino da effettiva mancanza di risorse monetarie o, invece, da volontarie scelte di parsimonia. In secondo luogo, il rischio di confondere persone e famiglie indebitate con persone e famiglie realmente ricche. Anche per queste ragioni, oltreché per l’esigenza di armonizzare le misure della povertà almeno in ambito europeo, l’Istat sta predisponendo le condizioni per cui anche il nostro Paese possa misurare la povertà in base al reddito.
Negli ultimi trent’anni, in tutti i Paesi avanzati si è prestata un’attenzione crescente al fenomeno della povertà per due ordini di ragioni.
Il primo di essi ha carattere, per così dire, pratico. Poiché in questi Paesi si ritiene che la condizione di povertà contrasti con basilari diritti di cittadinanza, nella gran parte di essi (ma non nel nostro) sono state messe a punto specifiche misure di sostegno del reddito delle persone e delle famiglie. La pubblica amministrazione si trova, quindi, nella necessità di disporre di strumenti analitici atti a stabilire quali siano le persone e le famiglie che si trovano in condizione di povertà, la misura in cui il loro reddito debba essere integrato, il costo complessivo per l’erario di questi interventi e la loro efficacia. 
Il secondo ordine di motivi ha carattere prevalentemente scientifico. Gli studiosi sono interessati a capire quali siano le ragioni che portano individui e famiglie ad entrare nella condizione di povertà (e ad uscire da essa). Si è così potuto stabilire che sono maggiormente esposti a questo rischio: i disoccupati, coloro che esercitano ruoli lavorativi di carattere manuale alle dipendenze, i meno istruiti, le persone più anziane e quelle più giovani, le donne, gli appartenenti a famiglie con un solo genitore o a convivenze domestiche formate dalla coppia con 3 o più figli. 
Oltre ai nessi tra strutture di disuguaglianza o caratteristiche personali e rischi di povertà, le indagini su quest’ultima hanno cercato di porre in luce le conseguenze sociali subite da chi ne cade vittima. È stato posto in luce che la povertà non produce solo una caduta nei livelli di consumo. In più essa può contribuire, con intensità variabile in funzione degli specifici contesti sociali, al declino delle condizioni di salute psico-fisica, all’acuirsi di eventuali problemi di relazione intrafamiliare, alla riduzione delle possibilità di partecipazione alle vita associata e al vero e proprio isolamento sociale.
Il reddito, dal canto suo, fa riferimento al potere d’acquisto di beni e servizi da parte di un individuo, di una famiglia o di una collettività, consentito dall’ammontare delle rispettive entrate monetarie. Fanno parte di queste entrate i compensi salariali, le rendite da pensione, i trasferimenti monetari a qualsiasi titolo provenienti dalla pubblica amministrazione, da organizzazioni private di beneficenza e di assistenza e da individui (parenti, amici, ecc.) e le somme percepite (sotto forma di interessi, dividendi e affitti) grazie ad investimenti mobiliari o immobiliari.
Da tutto quanto precede si dovrebbe agevolmente derivare che mentre la ricchezza consiste in un fondo o, come anche si dice in gergo tecnico, in uno stock di risorse economiche monetizzabili, il reddito rappresenta un flusso di entrate monetarie.
Il legame intercorrente tra ricchezza e reddito sta nel fatto che quella è prodotta dall’accumulazione di questo  (anche se non effettuata direttamente da chi la possiede, ma dai suoi ascendenti) che, a sua volta, può essere generato dalla prima. Si è fatto ricorso ad un’espressione limitativa perché si può, notoriamente, dare produzione di reddito anche in assenza di ricchezza. Tale è il caso dei redditi da lavoro, da rendite pensionistiche e da altri trasferimenti monetari.
La notevole attenzione che tutti gli scienziati sociali, economisti in testa, riservano alla ricchezza e al reddito sta nella duplice osservazione che, in tutte le società ad economia di mercato, (a) la loro distribuzione appare fortemente differenziata in funzione dell’occupazione svolta e di altre caratteristiche sociali delle persone (posizione della famiglia d’origine, livello di istruzione, genere, generazione, età); e (b) i livelli di vita degli individui e dei gruppi, ma anche le loro possibilità di esercitare potere e influenza in svariate sfere della vita associata, sono strettamente connesse alla rispettiva posizione nella distribuzione del reddito e in quella della ricchezza. 
Quanto alla ricchezza, essa coincide con il patrimonio mobiliare e immobiliare di individui, famiglie o collettività, ossia con l’insieme delle risorse materiali dotate di un valore di mercato che le une e gli altri posseggono.