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Finanziarizzazione del welfare

Scritto da: Andrea Ciarini

 

Definizione

Per “finanziarizzazione del welfare” possiamo intendere la crescente interdipendenza tra offerta di protezione sociale e mercati finanziari. Tra tagli alla spesa sociale e stretti vincoli di bilancio, la ricerca di soluzioni alternative alla spesa pubblica è un fenomeno che taglia trasversalmente diversi settori: pensioni, sanità, educazione e più di recente anche le politiche sociali e di contrasto alla povertà. Il coinvolgimento di capitali finanziari e investitori privati nel welfare territoriale può contare su una gamma ormai estesa di strumenti, alcuni rivoti ai provider, profit e non profit, altri ad amministrazioni e autorità pubbliche territoriali in partenariato con pool variegati di investitori, provider e agenzie indipendenti di valutazione d’impatto.

In molti paesi europei diverse banche hanno lanciato forme di raccolta del risparmio (Social Bonds) da destinare al finanziamento di singole organizzazioni di terzo settore o imprese sociali sotto forma di prestiti agevolati e finanziamenti a impatto. Allo stesso modo, anche strumenti finanziari più complessi, come i Social Impact Bonds (SIB), hanno iniziato a diffondersi, finanziando partenariati pubblico-privato in cui vengono ad essere coinvolti le amministrazioni locali, gli investitori, i provider, i beneficiari delle prestazioni e agenzie indipendenti di valutazione degli impatti sociali (Pasi, 2014). Inizialmente introdotti nel Regno Unito (Azemati et. al., 2013; Dowling, 2017) e di seguito promossi in diversi altri paesi europei (compresa di recente anche l’Italia), i SIB sono forme di investimento nel sociale che puntano a garantire un ritorno sul capitale investito attraverso le riduzioni di spesa prodotte dai progetti finanziati (in partenariato con le amministrazioni). Naturalmente trattandosi di un vero contratto tra due o più contraenti e di “pagamenti a risultato” (payment-by-results), il ritorno sul capitale investito dipende dal successo dei progetti selezionati, più nello specifico dal raggiungimento degli obiettivi posti alla base dell’attivazione del partenariato. È infatti in conseguenza di ciò che le amministrazioni conseguono quei risparmi di spesa con i quali ripagare gli investitori. Al contrario, l’insuccesso del progetto, può prevedere il mancato pagamento degli interessi sul debito contratto, con conseguenze negative per l’investitore. Da qui la centralità e l’importanza della valutazione d’impatto come strumento di governo dei nuovi rapporti pubblico-privato.

 

Il dibattito teorico

Per un filone di letteratura ormai consolidato (Streeck, 2015; Dowling, 2017) i processi di finanziarizzazione, di cui strumenti come i SIB e la finanza di progetto sono diretta espressione, vanno interpretati nell’ottica di un progressivo spiazzamento delle leve di intervento pubblico, non solo assoggettando l’offerta di protezione sociale a logiche finanziarie ma soprattutto stabilendo un ordine di priorità e di interessi da tutelare a vantaggio degli investitori e a discapito dei diritti sociali (Streeck, 2015). In questa prospettiva di analisi, “austerity permanente” e finanziarizzazione dell’economia sono elementi strettamente connessi, l’uno speculare all’altro, la prima impedendo manovre espansive attraverso il bilancio pubblico, la seconda fornendo risorse private finalizzate a compensare i tagli alla spesa sociale, ma al prezzo di interessi che vanno a remunerare gli investitori.

Le pressioni che emergono in questa direzione sono destinate ad avere impatti significativi sui rapporti tra pubblico e privato nel welfare. Non è da oggi, tuttavia, che i circuiti della finanza hanno iniziato a interagire con l’offerta di protezione sociale. Già Colin Crouch (2009) con l’espressione “keynesismo privatizzato” aveva messo in evidenza anni addietro i nessi di funzionalità reciproca tra finanziarizzazione dell’economia e tagli alla spesa sociale pubblica. Il riferimento va qui in particolare a quel sistema di crediti “facili” e liquidità a basso costo che per una lunga fase ha controbilanciato le spinte alla crescita delle disuguaglianze e alla diminuzione del potere d’acquisto dei ceti medio-bassi nel ciclo seguito alla crisi del compromesso keynesiano. Diversi studi hanno in seguito enfatizzato questa connessione, mettendo in evidenza come il credito facile, in particolare nei paesi anglosassoni, abbia consentito di ridurre consistentemente la domanda di spesa pubblica per il welfare, funzionando come vero e proprio strumento di protezione sociale, soprattutto nei confronti delle fasce di popolazione più a rischio marginalità e dipendenti dalle prestazioni sociali pubbliche (Hay, 2011).

In un quadro di crescente residualizzazione dell’offerta pubblica, il credito a basso costo e la stessa bolla immobiliare trainata dalla finanza, hanno consentito in questo modo di convogliare risorse private verso beneficiari privati di diritti sociali e di reddito, ma messi nella condizione di accedere al consumo e anche a beni fondamentali come la casa, al prezzo però di un forte indebitamento privato. È stato questo, in effetti, il trade-off che ha sottostato all’ascesa della finanza come mezzo di protezione sociale. La novità degli ultimi anni è che anche il finanziamento dei servizi e le politiche sociali sono entrati a pieno ritmo in questi meccanismi di crescita trainata dalla finanza (cfr. Baccaro e Howell, 2017), sulla scia di riforme volte, da un lato a privatizzare i servizi pubblici, e dall’altro a garantire alternative di investimento all’industria finanziaria. Dal sostegno al consumo a debito di consumatori e cittadini-utenti spinti a indebitarsi per accedere a beni fondamentali come la casa, il riposizionamento di investitori e capitali finanziari inizia a riguardare il finanziamento diretto delle istituzioni pubbliche, forzate, a causa dei pressanti vincoli di bilancio, a indebitarsi per finanziare infrastrutture sociali e servizi altrimenti non disponibili.

Alcuni studiosi (Azemati et al., 2013) hanno avanzato critiche alla crescita di questo processo di finanziarizzazione. Prima di tutto, il rischio di un’ulteriore ondata di privatizzazioni e assoggettamento a logiche finanziarie dei servizi pubblici. In secondo luogo, il possibile prodursi di effetti creaming, ovvero la selezione avversa nei confronti dei soggetti più vulnerabili e progetti più rischiosi. Terzo punto, il ridursi della valutazione di impatto a una mera misurazione degli outcome sociali più funzionale al rimborso del capitale investito che non alla presa in carico dei beneficiari. Infine, il rischio di una eccessiva concentrazione degli investimenti su un gruppo ristretto di grandi provider privati e no profit, più attrezzati rispetto alle piccole organizzazioni sociali, nell’intercettare e coagulare intorno a sé risorse finanziarie che richiedono strutture di gestione molto più strutturate e complesse rispetto al passato.

 

In Italia

L’Italia è un caso interessante. Anche questo paese è esposto a forti vincoli di bilancio che limitano, soprattutto a livello territoriale per effetto della crisi, la spesa pubblica in favore dei servizi di welfare e dei progetti di innovazione sociale. Parallelamente sono andate crescendo le spinte in direzione dell’apertura all’ingresso di capitali privati nel finanziamento dei medesimi servizi. Nel 2017 è stato lanciato il primo SIB italiano a Torino grazie a una partnership Ministero di Grazia e Giustizia, Human Foundation e la Fondazione Sviluppo e Crescita controllata dalla Cassa di Risparmio di Torino (Fondazione di origine bancaria azionista del gruppo Intesa-San Paolo). Da notare che il lancio di questo progetto ricalca negli obiettivi il primo SIB lanciato nel 2010 nel Regno Unito. Si tratta infatti anche in questo caso di un progetto finanziato per ridurre la recidiva. L’avvio del primo SIB italiano è un fatto significativo, cui potrebbero seguire altre iniziative analoghe. Resta il fatto che siamo di fronte a un ecosistema finanziario ancora a uno stato embrionale, senza avere ancora raggiunto né una massa critica, né una caratterizzazione di fondo, tale da identificare un modello di intervento compiuto. Va inoltre detto che le traiettorie di finanziarizzazione non vanno circoscritte all’ambito, sia pure significativo, dei SIB. Sono in realtà molteplici i canali di investimento nel welfare, così come gli attori che iniziano a muoversi nel mercato dell’investimento sociale: fondazioni di origine bancaria, banche, fondazioni filantropiche, in un crescendo di sperimentazioni territoriali che alimentano (soprattutto nelle regioni centro-settentrionali) un flusso crescente di risorse private per l’innovazione sociale (Ferrera e Maino, 2014).

Diverse banche italiane hanno lanciato in questi anni social bonds per raccogliere capitale da destinare, sotto forma di donazioni o prestiti agevolati, a organizzazioni di terzo settore. Tra il 2012 e il 2014, sono stati 54 i social bonds attivati in Italia per una raccolta che è arrivata a 560 milioni di euro (AA.VV., 2014). Si tratta di un volume di risorse certamente considerevole che però fuoriesce dai confini dell’investimento a impatto. Diverso è il discorso per le fondazioni bancarie, principalmente per il fatto di contribuire a mobilitare risorse private destinate al finanziamento di servizi sociali e di partenariati pubblico-privato, comprese alcune forme sperimentali di impact-investing. Le 88 fondazioni di origine bancaria attualmente operanti in Italia erogano finanziamenti di varia natura in favore di attività culturali, del patrimonio artistico, di organizzazioni di terzo settore e anche del welfare locale, in particolare social housing, contrasto della povertà minorile e assistenza per gli anziani. Gli interventi di welfare hanno assorbito nel 2016 risorse pari a 293 milioni di euro, più 120 milioni per l’istituzione di un fondo espressamente dedicato al contrasto della povertà minorile. In linea generale investimenti di questo tipo tendono a supplire alle carenze dell’offerta pubblica territoriale, in special modo nelle aree di intervento più sguarnite, o per mancanze di risorse o per la tradizionale assenza di servizi.

La nuova normativa sul terzo settore ha introdotto alcune novità sul piano del finanziamento bancario e non bancario per il terzo settore, ad esempio istituendo strumenti come i social bonus (un credito d’imposta per favorire il recupero di beni pubblici inutilizzati) o i titoli di solidarietà (obbligazioni e titoli di debito emessi da istituti di credito per finanziare gli impieghi in favore delle organizzazioni di terzo settore) che nelle intenzioni del legislatore dovrebbero concorrere a canalizzare risparmio privato sull’economia sociale. Si tratta tuttavia di logiche diverse da quelle tipiche dell’impact-investing anglosassone. In primo luogo, per il fatto di non essere condizionate a risparmi di spesa pubblica con cui garantire il pagamento degli interessi. In secondo luogo, per la diversità delle risorse finanziarie mobilitate, provenienti in questo caso dal risparmio privato. In terzo luogo, per il fatto di collocarsi in un panorama finanziario fortemente banco-centrico e imperniato su ruolo guida delle fondazioni bancarie e più di recente anche di Cassa Depositi e Prestiti (di cui peraltro le fondazioni sono il secondo azionista dopo lo Stato).

Questa varietà di istituzioni e soluzioni finanziarie che contraddistinguono il contesto italiano ha caratteristiche tali da farne un modello a sé stante, sia pure ancora a uno stato embrionale. Naturalmente questo non basta di per sé al per mettersi al riparo da logiche estrattive o effetti creaming, ad esempio nella selezione dei progetti da finanziarie o dei gruppi target di utenti sui quali sperimentare forme di finanza a impatto. Lo stesso vale per le organizzazioni sociali e il terzo settore, spinte a riorganizzarsi per dotarsi di leve finanziarie e strutture in grado di attrarre questo tipo di finanziamenti. C’è poi una questione di asimmetrie interne, date dal fatto che la stragrande maggioranza di queste istituzioni finanziarie no profit si trova nelle regioni centro-settentrionali e che per statuto sono chiamate a investire nelle aree territoriali di riferimento. La presenza di forti disuguaglianze su base regionale nell’offerta di welfare è un fenomeno di lungo periodo in Italia, non strettamente dipendente dalla ricerca di soluzioni alternative alla spesa pubblica. Va detto tuttavia che questi processi, se non ricondotti dentro una logica di sistema, corrono il rischio di aumentare le distanze, già da tempo evidenti, tra regioni che possono contare su estese reti associative, servizi pubblici efficienti e oggi anche investitori finanziari – il Nord e il Centro-Nord (Ascoli e Pavolini, 2015) – e le regioni del Sud, più deboli su tutti questi fronti e ancora più spinte verso i margini.

 

Finanziarizzazione e agency degli attori

A causa delle misure di consolidamento fiscale le spinte verso la finanziarizzazione sono in crescita. E l’attenzione verso strumenti come i SIB o la finanza di progetto ne è una testimonianza diretta. Questo avviene però all’interno di differenze tra paese a paese che rimandano a questioni cruciali per l’analisi comparata, come il tipo di investitori prevalenti, la loro mission, la quantità e la natura delle risorse investite, i condizionamenti istituzionali ereditati dal passato, le metodologie di valutazione di impatto e la stessa nozione di impatto sociale, tutt’altro che comunemente diffusa e accettata. Tutto questo contribuisce a definire un campo non solo in rapida evoluzione ma anche estremamente disomogeneo. Da questo punto di vista, non siamo di fronte a un mercato degli investimenti sociali che ha caratteristiche comuni nei diversi paesi, né che tende a evolversi secondo la direzione indicata dal contesto nel quale prima e di più è andato avanzando il processo di finanziarizzazione del sociale, ovvero il Regno Unito. Vi sono pressioni comuni che vanno in direzione dell’allargamento delle fonti di finanziamento private, comprese quelle di natura finanziaria, ma risposte istituzionali che continuano a evidenziare una certa variabilità, per effetto dei condizionamenti istituzionali ereditati dal passato (su tutti, quelli legati agli assetti istituzionali del welfare) e delle diverse strategie adottate dagli attori, pubblici e privati. E qui tornano di importanza le risorse di potere a cui gli attori chiave, comprese le amministrazioni e le stesse parti sociali, attingono per perseguire i propri obiettivi e strutturare le coalizioni di interessi in grado di sostenere in una direzione o nell’altra il mutamento istituzionale, anche quello che impatta con le pressioni alla finanziarizzazione. Su tutto questo abbiamo a disposizione ancora poche ricerche. È però un terreno di analisi fondamentale per capire e in certa misura anche orientare il cambiamento.

 

Riferimenti bibliografici

  • AA.VV. (2014), La finanza che include: gli investimenti ad impatto sociale per una nuova economia, Roma.
  • Ascoli U. e E. Pavolini (2015), The Italian Welfare State in an European Perspective, Bristol, Policy Press.
  • Azemati H., M. Belinsky, R. Gillette, J. Liebman, A. Sellman e A. Wyse (2013), “Social Impact Bonds: lessons learned so far”, Community Development Investment Review, 1, 22-32.
  • Baccaro L. e C. Howell C. (2017), Trajectories of Neoliberal Transformation. European Industrial relations since the 1970s, Cambridge, Cambridge University Press.
  • Crouch C. (2009), “Privatised Keynesianism: An Unacknowledged Policy Regime”, British Journal of Politics and International Relations, 3, 382-399.
  • Dowling E. (2017), “In the wake of austerity: social impact bonds and the financialisation of the welfare state in Britain”, New Political Economy, 3, 294-310
  • Ferrera M. e F. Maino (2014), “Social Innovation beyond the State. Italy’s Secondo Welfare in an European Perspective”, Working Papers 2WEL, 2.
  • Hay C. (2011), “Pathology Without Crisis? The Strange Demise of the Anglo-Liberal Growth Model”, Government and Opposition, 1, 1-31.
  • Pasi G. (2014), “Challenges for European welfare systems. A research agenda on social impact bonds”, Review of Applied Socio-Economic Research, 2, 141-150
  • Streeck W. (2015), “The Rise of the European Consolidation State”, MPIfG Discussion Paper, 15/1.

 

Suggerimenti di lettura

  • Agostini C. e E. Cibinel (2017), “Il contributo delle Fondazioni di origine bancaria al contrasto alla povertà”, in F. Maino e M. Ferrera (a cura di), Terzo Rapporto sul secondo welfare, 195-220, Torino, Centro Luigi Einaudi.
  • Burroni L. (2016), Capitalismi a confronto. Istituzioni e regolazione dell'economia nei paesi europei, Bologna, il Mulino.
  • Kalinowski T. (2013), “Regulating International Finance and the Diversity of Capitalism’, Socio Economic Review, 3, 471-496.
  • OECD (2016), Understanding Social Impact Bonds, Paris, OECD Working Papers.
  • Seeleib-Kaiser M. (2013), “Welfare Systems in Europe and the United States: Conservative Germany Converging toward the Liberal US Model?”, The International Journal of Social Quality, 2, 60-77.
  • Sinclair S., N. McHugh, C. Donaldson, M. Roy e L. Huckfield (2014), “Social impact bonds: shifting the boundaries of citizenship”, in K. Farnsworth, Z. Irving e M. Fenger (a cura di), Social Policy Review 26: Analysis and Debate in Social Policy, 111-128, Bristol, The Policy Press.
  • Smith N. e C. Hay (2013), “The resilience of Anglo liberalism in the absence of growth: the UK and Irish cases”, in V.A. Schmidt e M. Thatcher (a cura di), Resilient Liberalism in Europe's Political Economy, 289-312, Cambridge, Cambridge University Press.
  • Streeck W. (2017), “A New Regime. The Consolidation State”, in D. King e P. Le Galès (a cura di), Reconfiguring European States in Crisis, 139-157, Oxford, Oxford University Press.
  • Thompson H. (2013), “UK debt in comparative perspective: the pernicious legacy of financial sector debt”, British Journal of Politics and International Relations, 3, 476-492.
Andrea Ciarini
Andrea Ciarini è docente di Sociologia Economica presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università di Roma. Nello stesso Dipartimento è coordinatore del Laboratorio SemPer (Seminario Permanente sulle politiche sociali e l’empowerment del cittadino). È stato visiting researcher presso la LSE e visiting fellow presso il Centre for Sociological Research dell’Università di Lovanio. I suoi interessi di ricerca riguardano il welfare e le relazioni industriali.

Progetto realizzato da

Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali

Con il contributo di

Fondazione Cassa di Risparmio di Modena